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Halloween kills: come dissacrare la figura di Michael Myers

Michael torna alla carica in questo nuovo, sfuocato capitolo dove la parola d’ordine è noia.

Nel 2018 David Gordon Green rilancia il mito di Michael Myers con un reboot/sequel in grado di conquistare la critica. Il successo fu enorme, dato soprattutto dal ritorno di Jamie Lee Curtis nel personaggio dell’iconica Laurie Strode, acerrima rivale del killer. Fece cosi tanto clamore che ad un certo punto, quel “piccolo” reboot si trasformo in una nuova trilogia. Halloween kills è appunto il secondo capitolo di quest’ultima che vorrebbe elevare Michael ad un’altra dimensione ma riesce solo a rovinare un’icona immortale creata dalla mente geniale di John Carpenter.

Il film riparte dal finale del precedente. Laurie Strode, dopo aver dato fuoco a casa sua per uccidere Michael Myers, viene portata di corsa all’ospedale con ferite mortali, convinta di aver finalmente ucciso il suo tormentatore di una vita, insieme a sua figlia Karen e alla nipote Allyson.

Purtroppo, però, Michael riesce a liberarsi dalla trappola e ricomincia a uccidere, seminando morte mentre Laurie lotta tra la vita e la morte. Mentre la donna cerca di guarire, gli abitanti di Haddonfield si ribellano contro l’inarrestabile mostro. Così un gruppo di sopravvissuti al primo massacro di Michael decidono di prendere in mano la situazione, formando una folla di “vigilanti” per cacciare Michael una volta per tutte.

Presentato fuori concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, il film profana il mito creato da John Carpenter, limitandosi ad allungare un brodo che hanno cucinato come ricca trilogia. Se nel capolavoro originale non si vedeva praticamente mai del sangue, perché la paura emergeva dall’ombra, David Gordon Green si diverte a seminare morti ammazzati, con Michael semplicemente chiamato a fare una strage.

Cadavere dopo cadavere, la sceneggiatura si limita ad immaginare omicidi differenti ed efferati, mentre attorno al mostro l’insensatezza regna sovrana.

Non c’è più la ferocia che ha caratterizzato il personaggio per anni, ormai è diventato un killer pianificatore, sembra che alcuni omicidi siano preparati con una lucidità che non ha mai fatto parte di lui. Ad un certo punto ci si domanda, ma siamo andati a vedere Halloween o un documentario su Ted Bundy?

Un sequel fuori controllo nella scrittura, a tratti involontariamente comico ed esageratamente slasher.  La famigerata “essenza del male” che Myers rappresenta perfettamente da oltre 40 anni assume in Kills i contorni di un frullatore di carne umana, che molto semplicemente fa a pezzi chiunque osi trovarsi sulla sua strada.

Un capitolo due stanco e privo di idee che compie il suo più grande errore nel lasciare in panchina una Jamie Lee Curtis, che di fatto è una figura secondaria all’interno di un titolo che trasforma Michael Myers in una sorta di uomo nero immortale.

Il film del 2018 è stata un’operazione estremamente intelligente e aveva sapientemente fatto rinascere il legame tra lo psicopatico e l’ex babysitter; qui inspiegabilmente la cabina di sceneggiatura spegne tutto ciò e confeziona solamente uno slasher dove a regnare è solo ed esclusivamente il sangue. Se non si fosse chiamato Halloween questo titolo sarebbe tranquillamente passato in sordina.

Si rimpiange a grande voce la versione iper-violenta e più umana di Rob Zombie.

FABIO BUCCOLINI

“La babysitter”, L’esplosione visiva del puro trash anni ottanta

Mcg firma per Netflix una commedia dell’orrore fracassona, divertente che omaggia a piene mani gli anni ottanta.

Con “La Babysitter”, McG cavalca la moda e le tipiche atmosfere del revival degli anni ottanta, mettendo in scena una commedia nera dalle tinte splatter, che richiama esplicitamente vari filoni dell’epoca, come l’home invasion, gli slasher movie e le più pruriginose horror comedy, condendo il tutto con un sempreverde citazionismo delle pietre miliari della cultura pop e nerd. Il risultato è un film furbo, ammiccante e non sempre centrato, che però con la sua imprevedibilità e la sua intrinseca mutevolezza riesce a coinvolgere e intrattenere per tutta la sua durata, azzeccando anche qualche notevole momento gore. Insomma il suo prodotto migliore da anni.

Questa la sinossi del film: “Il dodicenne Cole scopre che la sua amata bambinaia appartiene a una associazione di adolescenti dediti ad un culto satanico. Il ragazzino deve mettere da parte la sua cotta e sfuggire prima di essere sacrificato”.

McG torna dopo tre anni dietro la macchina da presa e confeziona la sua opera migliore dai tempi di “Charlie’s angels”. Brilla in questo palese B-Movie dove umorismo politicamente scorretto, litri di sangue e omaggi ai migliori slasher anni ottanta fanno di questa opera una piccola chicca che sicuramente verrà apprezzata di più nel corso degli anni. Tutto ciò condito dal fisico scultoreo dell’ottima attrice Samara Weaving (da tenere assolutamente d’occhio per il futuro) che, come ogni film trash che si rispetti, sollecita la curiosità di tutti gli ometti che iniziano la visione.

Il vero segreto per poter apprezzare fino in fondo un prodotto come “La Babysitter” si racchiude nel non prendere mai realmente sul serio ciò che sta accadendo sullo schermo, acquisendo piena coscienza di come la horror comedy di McG sia fortemente derivativa e infarcita fino al midollo di gustose (e chiaramente volute) citazioni all’ormai onnipresente immaginario di genere anni ottanta e il tutto adottando un meccanismo dissacratorio sul modello degli Scary Movie in cui il mito viene integralmente spogliato della propria aura di primigenia seriosità.

Nell’incerto e altalenante recente percorso delle produzioni cinematografiche originali Netflix, La Babysitter si rivela un riuscito esperimento di commistione fra generi, capace, pur senza la minima pretesa autoriale e limitando al minimo l’introspezione psicologica dei personaggi, di riportare alla luce con originalità e brillantezza delle atmosfere e un umorismo decisamente rari nel panorama horror odierno.

Attraverso una vera e propria forma di splatter “creativo” che a tratti rasenta quasi il pulp tarantiniano,“La  babysitter” non sarà certamente un capolavoro, ma non c’è dubbio che le carte in regola per un sano e spassoso divertimento di consumo le possiede davvero tutte.

FABIO BUCCOLINI

“Noi – Us”, la terrificante critica sociale di Jordan Peele

Dopo essere stato acclamato da critica e pubblico per il suo “Scappa – Get out” Peele torna alla carica con un’opera all’apparenza scontata ma con un messaggio sociale devastante.

“Us”, che esce in Italia con il titolo “Noi”, non è una scelta casuale. La famiglia di cui si narra nel film rappresenta un semplice pretesto per discutere gli emarginati, gli esclusi, tutte quelle minoranze sociali che, per qualche ragione, vengono dimenticate, lasciate a marcire sul fondo del mondo. L’idea è tanto semplice quanto straordinaria; Peele cala l’asso, espandendo la sua idea di cinema e rendendola incredibilmente più matura. Dissemina indizi e riferimenti, gioca con la narrazione di superficie, ma è nel/dal sottosuolo che costruisce con perfezione unica le geometrie di un incubo dal quale sarà impossibile fuggire.

La sinossi del film è estremamente semplice e scontata, come la narrazione di superficie di cui parlavo pocanzi: Accompagnata dal marito e dai figli, Adelaide torna nella casa sulla spiaggia dove è cresciuta. Quattro sconosciuti mascherati, però, bussano alla loro porta, dando vita ad un incubo inimmaginabile.

La sceneggiatura in “Noi” è persino più ambiziosa e contorta di quella di Get Out, già di per sé ottima. La premessa qui è intrigante, suggestiva, inusuale. Gli horror hanno abituato lo spettatore all’idea del “cattivo”, dell’entità malvagia da sconfiggere o dalla quale fuggire. In questo caso il cattivo siamo invece noi stessi, ovvero nello specifico le proiezioni malvagie dei protagonisti, le loro nemesi.

La poetica di Peele è ormai chiara, e la sua voglia di raccontare le minoranze, sfruttando la sua caparbia volontà di utilizzare solo attori afroamericani come protagonisti, non fa che accentuare una sorta di “razzismo contrario” che, se da una parte rischia di far deflagrare l’opinione pubblica su se stessa nel corso del tempo, è funzionale alla cattiveria insita nella scrittura di queste opere.

In “Noi” c’è tutto: tensione, spavento, atmosfera, storia, ironia, sangue, emozioni. Forse non sarà l’horror tutto jumpscare e urla che ormai il mercato propone incessantemente (e che il pubblico invoca a grande richiesta) ma parliamo in ogni caso di una pellicola che merita solo elogi, così come il suo regista ed i suoi attori. Un’inquietante ed avvincente favola dark dell’orrore dove, per restare uniti e salvarsi, non bisogna più scappare via da loro, ma da noi stessi.

La densa mole di spunti non appesantisce il racconto, che nella calibrata alternanza di scene di azione e momenti di tensione guadagna un equilibrio dinamico e coinvolgente. Non mancano per la verità alcune incongruenze narrative, che nel filone horror sono quasi un difetto congenito. Il parziale rigetto della verosimiglianza è però consapevole; “Noi” si appella piuttosto alla simbolicità dell’inconscio, per il quale le coincidenze sono manifestazioni coerenti di una sincronicità sottesa e l’estraneità è una distorsione psicologica del familiare. Si spiega in tal modo la presenza all’interno del testo filmico di un vasto alfabeto simbolico di matrice pop. A questo proposito merita particolare attenzione la t-shirt in cui campeggia il Michael Jackson di “Thriller”, umano e zombie, uomo e donna, nero e bianco, definito da Peele stesso “santo patrono dell’ambiguità”.

Le risate e gli stilemi dell’horror raccontano semplicemente la capacità di Peele di divertirsi, fondata sul suo background artistico. Ciò non toglie che le tematiche affrontate siano attuali e potenti, in grado di far riflettere e senza troppi mezzi termini. Per questo, per una volta, la chiara spiegazione finale, che non lascia adito ad interpretazioni, è perfetta.

Vi lascio con l’idea di base del film, con la quale Jordan Peele parla agli spettatori e…all’umanità intera:

Geremia 11:11: “Perciò, così parla l’Eterno: ecco, io faccio venir su loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò.”

A noi l’arduo compito di riflettere, riflettere…riflettere.

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “Climax” l’horror secondo Gaspar Noé

Il nuovo film di Gaspar Noé è la folle notte di un gruppo di ballerini, fra eros e droghe, in un’inarrestabile discesa negli abissi del delirio.

Climax poster

Da un certo punto di vista Gaspar Noé, più che un regista, potrebbe essere visto come un dj. D’altronde i suoi film sono un po’ come un invito a ballare: l’unica cosa che lo spettatore deve fare è decidere se lasciarsi trasportare dalla musica e dalle luci psichedeliche oppure se abbandonare il locale per evitare il mal di testa. Non ci sono mezze misure o sfumature; è difficile poter pensare di rimanere seduti in disparte a guardare gli altri che ballano. E forse, mai come con “Climax”, il regista argentino è riuscito a tradurre questa sua idea di cinema per immagini. Il film viene definito come un mashup tra “Step Up” e “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. È un paragone tanto bizzarro quanto calzante per dare un’idea dell’opera di uno degli autori più controversi del cinema contemporaneo, girata in appena due settimane in una scuola abbandonata della periferia di Parigi e presentata alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2018. Un film radicale fin dalla sua impostazione, che il regista franco-argentino trasforma in un’allucinata parabola di frenesia e di morte sviluppata nel corso di novanta, frastornanti minuti.
“Climax” è uno di quei titoli che puoi amare o odiare: il fascino è direttamente proporzionale alla repulsione. Forse è una sfida fare tanti film mutanti tutti insieme. Che ribaltano il concetto di tempo. in un unico spazio. Dove comincia? Dove finisce? La nascita e la morte. L’euforia e la disperazione. Quest’opera è frenesia, estasi, tormento e tenebre. Potrebbe partire dalla fine. Come “Irréversible”. Un ventina di giovani ballerini si riunisce per uno stage di tre giorni in un collegio in disuso. Ballano, si ubriacano, sembrano tutti su di giri. Poi c’è qualcosa nella sangria. E il clima cambia rapidamente.

Climax

Un vortice visivo che tende a risucchiare personaggi e spettatori in un’escalation di sensazioni ed eventi senza via d’uscita. Un ballo mortale in cui i corpi progressivamente si deformano, perdono la propria unicità e grazia, diventando un magma di carne, sudore e sangue di cui a tratti sembra quasi di sentirne l’odore. Un climax viscerale orchestrato per mettere ancora una volta al centro del discorso l’inesorabile forza distruttiva del tempo che, come un inarrestabile conto alla rovescia, travolge ogni cosa riportandola al punto di partenza. Visivamente potentissimo. Strutturalmente estremamente audace. Con un piano sequenza inarrestabile in un ballo collettivo senza respiro. Tra Erik Satie e i Rolling Stones. In un clima di festa, di colori che esplodono. Un massacro di cui Noé ci rende spettatori, ma mantenendo sempre un netto distacco emotivo rispetto a personaggi di cui sappiamo poco e nulla: è l’assunto di un film in cui il coinvolgimento sensoriale – i suoni, le luci, i colori, il dinamismo dell’azione – surclassa quello emotivo. Un film concepito come un tenebroso baccanale, in cui la dimensione dionisiaca sconvolgerà qualunque ipotesi di razionalità e di ordine, fino al rovesciamento (letterale) di questo microcosmo circoscritto, teatro di un rituale orgiastico destinato a culminare in un inevitabile tributo di sangue.
Gli eccessi sono la parola d’ordine in questo dramma dalle derive ironiche, grottesche, dai sussulti thriller, con il destino di alcuni comprimari che provoca una crescente suspense mista a disagio e diverse sequenze che sono già diventate cult.
Dopo un viaggio istintivo e puramente emotivo come quello proposto da “Climax”, nel momento in cui la musica finisce e le luci si riaccendono, restano nella mente sensazioni, flash e sonorità confuse; ma il rischio è che tutto venga dimenticato in fretta, che di indelebile rimanga poco: perché il cinema di Gaspar Noé è un’esperienza al contempo travolgente e fine a se stessa, ipnotica e respingente, geniale, divertente, estrema e…gratuita.

FABIO BUCCOLINI

“IL SIGNOR DIAVOLO” IL RITORNO ALLE ORIGINI DI PUPI AVATI

Dopo alcune pellicole non troppo degne di nota, Pupi Avati torna in sala con una storia basata su un suo romanzo che sa tanto di un ritorno alle origini della sua carriera.

Il signor diavolo

Il ritorno all’horror padano giova a Pupi Avati; “Il signor diavolo” è lavoro ben riuscito grazie alle cupe atmosfere e all’analisi del potere del Male, della superstizione e della religione bigotta degli Anni ’50 nel cattolicissimo Veneto.
Esiste una certa aura mitologica intorno agli horror di Pupi Avati. Con “La casa dalle finestre che ridono” in testa, la modesta pattuglia di film realizzati tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80 ha generato un culto alimentato anche dal contrasto con quella che è stata la filmografia di Avati da lì in poi.
“Il Signor Diavolo” è un film che entra completamente nell’ottica del “classico” horror all’italiana, genere che in realtà non ha più rappresentanti da un bel pezzo, che è fiorito principalmente nello scorso decennio per mano di cineasti ormai molto anziani come Dario Argento e Lucio Fulci.
Si tratta di una pellicola che non può piacere a tutti gli amanti attuali del genere horror, ma che incontra sicuramente i gusti di chi apprezza appunto le particolarità tecniche che il genere ha da sempre: in particolare, se si ama un certo modo di usare la macchina da presa, una certa fotografia ed una certa gestione della narrazione si potrà godere immensamente di un film che dal punto di vista tecnico è semplicemente perfetto, in cui l’ambientazione tetra e le inquadrature fanno da soli gran parte del lavoro.
“Il signor diavolo” ha come pregio principale, prima di ogni valutazione narrativa, quello di un’ambientazione bellissima, cupa, adagiata lungo la laguna livida e calma che è quella di Comacchio per larga parte, ma traslata narrativamente un po’ più a nord a Venezia.
Il risultato è un film cupo, in certi tratti addirittura pessimista, che fotografa ed analizza come l’irrazionale, le paure, la malvagità e la costante ricerca dell’uomo di potere di toccare con mano il potere satanico diventino gli strumenti con cui l’oscurantismo e il potere della religione si impadroniscano dell’essere umano.

 

FABIO BUCCOLINI

I film ritrovati. “31” il nuovo incubo slasher di Rob Zombie

Dopo qualche anno di pausa dalla sua creazione più intimista “Le streghe di Salem”, il regista/cantante torna alla carica con una pellicola visionaria e super violenta dove tutto è lecito e niente scontato.
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Forse ascoltando l’istinto del musicista e forse cercando una via di fuga da quel ruolo poco gradito, Zombie ha architettato la propria rinascita seguendo le regole non scritte dei ritorni discografici: una pausa di riflessione lunga tre anni e il riaffacciarsi sulle scene con un’opera minimale che lo riporta alle origini. Il regista è uno che è sempre stato abituato a lottare per la propria creatività, fin da quel “La casa dei 1000 corpi”, massacrato dalle forbici pre-censura della Lionsgate. Gli è andata meglio in seguito per gli “Halloween” e con “Le streghe di Salem” si è potuto prendere (quasi) tutta l’autonomia che ha voluto. Da allora Rob Zombie è diventato come Lars Von Trier a Cannes: “regista non grato” e così l’idea geniale: tirare sui i soldi necessari col crowdfunding e girare un film senza dovere rendere conto a nessuno. Neanche agli investitori…così nasce “31”.
La trama è semplice e ridotta all’osso: “È la notte del 31 ottobre 1976. Un gruppo di giostrai ambulanti viene rapito nelle lande desolate del Texas. I rapitori sono dei potenti e ricchi signori, membri di un’associazione, che coinvolgono i malcapitati in un gioco di terrore, morte e sopravvivenza”.
Zombie volge lo sguardo indietro non solo al passato della sua carriera da regista, ma a quello del cinema horror più in generale, fuggendo come sempre dalle mode contemporanee realizzando uno slasher crudo e carnale, che affonda le sue radici nel mondo di Tobe Hooper.
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Costruendo con pochi sforzi questo contesto Zombie ha gioco facile per attingere a piene mani a quell’immaginario creato negli anni e recuperare idee di seconda mano, ma ad oggi ancora efficaci. Assistiamo così all’ennesimo carnevale macabro robzombesco a base di freak assassini: nani nazisti, clown sanguinari, ricconi travestiti e, soprattutto, persone comuni trasfigurate in carnefici dall’istinto di sopravvivenza. Non mancano le efferatezze, anzi si trovano dietro ogni angolo, ma per la maggior parte del tempo, e la prima volta in un film del regista, non si percepisce un senso di questa violenza che non sia meramente ludico.
Non si tratta della faccia di Doom Head, che non vediamo l’ora di rivedere in azione, ma di quella di Rob Zombie, uscito dalla crisalide in cui si era infilato a Salem in una forma inattesa: più furbo che efferato, più attento alla maschera che al volto che nasconde, più interessato alla confezione che ai mille particolari che ogni buon demiurgo dissemina nei mondi che crea.
Il film riesce ad arrivare sul grande schermo e, come succede spesso, spacca la critica in due. Zombie è riuscito nell’intento di creare personaggi malvagi che catturino il pubblico. Situazione già vista con il personaggio di Captain Spaulding. Questa volta tocca a Doom Head, interpretato da Richard Brake che lo ha reso un personaggio angosciante, spietato ed estremo.
Grazie al suo tocco personale Zombie crea delle vere e proprie opere d’arte su pellicola, amalgamando alla perfezione i personaggi con lo scenario che racconta. Il tutto è sostenuto da una colonna sonora che riprende grandi classici della musica mai dimenticati.
“31” non è un film per tutti. Gli amanti del genere apprezzeranno i dettagli e i ricordi al cinema del passato che fanno ancora battere il cuore. Sicuramente in un’industria dove negli ultimi tempi gareggiano remake su remake, questo film è una perla per gli occhi.
Rob, continua così!!!

FABIO BUCCOLINI

I film ritrovati. “It follows” il tanto acclamato horror americano finalmente in Italia

Nuovo appuntamento con la rubrica “I film ritrovati”, questa volta vi parlerò di “It follows” horror americano datato 2014. Alla sua uscita suscitò un putiferio. Approvazioni a destra e a manca, critici entusiasti e addirittura è stato classificato uno degli horror migliori del nuovo millennio. Niente di più sbagliato, classico b-movie scontato.

It follows

Il bello del cinema realizzato con pochi fondi è che gli autori devono sforzarsi se vogliono realizzare qualcosa di buono. Ma questo non è il caso di “It Follows”. Ci sono tutti gli elementi per realizzare veramente un buon film: l’incidere lento del tempo, il silenzio e l’assoluta mancanza di scopo nella violenza, in pratica si ritorna al passato; a quegli anni ottanta dove questi temi hanno fatto la fortuna dell’horror e consacrato dei personaggi (Jason, Freddy) a vere e proprie icone. Ma il talentuoso regista rovina tutto. Tecnicamente gira veramente un’ottima pellicola ma per quanto riguarda il resto, “It follow” è scontato, ridondante di luoghi comuni e insulso. Niente di più di un horror estivo di cui non si sentiva la mancanza e che deve la sua fortuna solamente ad una gigantesca pubblicità ingannevole volta solo a convincere lo spettatore che quello che sta guardano è un capolavoro indiscusso della cinematografia. Il classico caso in cui i mass media ci dicono una cosa e per noi comuni mortali è giusta a prescindere.
Questa la trama: Jay ( la brava Maika Monroe ) diciannovenne sguazza vivendo la sua giovinezza. Ma la tranquillità, ovviamente, svanisce subito. Una serata di passione si tramuta in orrore quando il ragazzo col quale ha appena fatto sesso la sequestra. Lui le confessa che con l’atto sessuale le ha passato una sorta di “maledizione”: d’ora in poi qualcosa la seguirà e può avere le sembianze di chiunque, conosciuto o non. Colui che la insegue sarà “lento ma non stupido” e se la raggiunge la uccide. Ora Jay deve affrontare questa maledizione, ad aiutarla ci saranno i suoi giovani amici.

It follows scena
Teen movie che strizza gli occhi ai film dello stesso tipo, “It follows” descrive continue fughe da fermi di questi ragazzi. L’entità da cui non si può fuggire non è altro che la metafora del mondo in cui vivono. Ottimo incipt che si perde nel voler scavare troppo a fondo. Ci sono regole ben precise se si vuole omaggiare i temi tanto amati negli anni ottanta. Si deve cercare solamente di sopravvivere senza ma e senza se. Qui una grande quantità di psicologia spicciola confonde lo spettatore senza portarlo mai ad un fine. Si cerca di enfatizzare il fatto che i giovani sono lasciati a se stessi, i genitori sono sempre assenti e non si curano di loro ma non si può fare con una “cosa” che ti segue lentamente e se tu prendi la macchina e scappi ci mette giorni per trovarti…Ma scherziamo? Se Freddy Krueger vedesse una cosa del genere ritornerebbe nei nostri sogni per farci capire veramente cosa significa non avere scampo. Quella era una realtà claustrofobica in cui nessuno sogna nemmeno più di andare via.
Quello che mi fa più scalpore è che il regista David Robert Mitchell è uno bravo, e lo aveva già dimostrato abbondantemente con “The myth of the american sleepove”. Aveva già dimostrato di saper raccontare la giovinezza, le incertezze, l’intimità, la sessualità. Qui fa vedere pure di aver studiato, citando il Carpenter più paranoide de La cosa e del Signore del Male, senza mai compromettere il suo stile personale caratterizzato da una densità liquida, da una morbidezza acquatica e ipnotica ripresa nelle piscine, nei getti d’acqua e nelle acque lacustri che costellano il film e ne segnano i momenti principali, dall’inizio alla fine. Ma toppa alla grande, confeziona un film scialbo e scontato in cui cerca di entrare troppo nel profondo ma non ha la capacità di gestire fino in fondo le reazioni psicologiche ed emotive dei personaggi. In pratica voto 10 per la messa in scena ma 2 per il resto.
Volete un consiglio? Evitatelo…evitatelo finché potete, altrimenti lentamente ed inesorabilmente vi inseguirà per il resto della vostra vita.
Un attesa di 2 anni buttata al vento.

FABIO BUCCOLINI

“The neon demon”, la bellezza disturbante secondo Nicolas Winding Refn

Dopo il tanto acclamato “drive” e il criticato “solo Dio perdona” Nicolas Winding Refn torna al cinema con una pellicola che di certo non è passata inosservata al festival di Cannes ma che va oltre i limiti obbiettivi del regista danese.

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Che Refn sia un ottimo regista non ci sono dubbi, tecnicamente è impeccabile e tutto quello che gira è una macchina perfetta di estremo estetismo che rende impeccabile il suo lavoro. Ma tutto il clamore che suscita nel momento in cui si inizia a parlare del suo nuovo film è effettivamente giustificato? Dal mio punto di vista assolutamente no. Lui è il classico esempio di come i media riescano a plagiare il pubblico. Tu vedi e ti piace quello che gli altri ti fanno credere che sia bello. Se ci pensiamo bene “Drive” è un capolavoro, ingloba in se tutta la meticolosità del regista che riesce con dialoghi quasi pari a zero a esprimere delle sensazioni profonde nello spettatore.
Da “Solo Dio perdona” il suo lavoro si è fatto molto più metafisico e simbolico volendo quasi imitare il maestro David Lynch e questo è stato il suo passo falso. Parliamoci apertamente caro Nicolas, tu non sei Lynch, continua a fare ciò che sai fare bene, cioè film cupi, quasi grotteschi dove la violenza è più psicologica che visiva ma non toccare un campo in cui non potrai mai elevarti. Tanti lo hanno definito anche l’erede diretto di Lars Von Trier, ma stiamo scherzando??? Trier quando fa qualcosa colpisce duro e sfonda lo stomaco dello spettatore senza pietà.
Comunque torniamo al punto saliente dell’articolo cioè “The neon demon”.
La trama è presto detta: “Quando l’aspirante modella Jesse (Elle Fanning) si trasferisce a Los Angeles, la sua giovinezza e vitalità vengono fagocitate da un gruppo di donne ossessionate dalla bellezza e disposte ad usare ogni mezzo per prenderle ciò che ha”.
L’apertura, con la sua musica elettronica e i colori psichedelici e fluo fanno ben sperare ed è l’inizio perfetto per la storia di una ragazza di provincia che approda a Los Angeles per lavorare nella moda.
È chiaro che Refn vorrebbe andare a parare nell’ossessione del dettaglio, nell’estetica pura e maniacale, la bellezza dello stile utilizzato al massimo, dai neon ai set in piscina, dai colori ai trucchi in volto. Ma se ancora la prima parte regge e monta un intreccio che sembra promettere bene da metà in poi “The Neon Demon” si chiude su se stesso e perde ogni trama o intreccio cercando la sola astrazione.
Dov’è finita la lurida potenza di “Pusher”, dove si è perduta la follia di “Bronson”, dove si nasconde la gloriosa violenza di “Valhalla Rising”? In pratica dov’è finito Nicolas Winding Refn?
È come se dopo l’esagerato successo ottenuto con “Drive”, il regista danese abbia perso il senso di un fare cinema che sta piano piano diventando solamente forma, in nome dell’assoluta estetica.
E’ l’inizio della fine di una carriera tanto osannata oppure ci sarà una ripresa?
Solamente il tempo ci saprà dare una risposta…

FABIO BUCCOLINI

I film ritrovati. “Piranha 3DD” trash allo stato puro

Dopo tre anni di “attesa”, è uscito in Italia il sequel di “Piranha 3D” di Alexandre Aja datato 2011. Come di consueto in Italia, niente sala cinematografica, si passa direttamente per l’home video…anzi in prima assoluta su Sky e poi distribuito in DvD e Blu-Ray.
Piranha 3DD cover 2
Tanto sanguinolenta quanto divertente operazione tridimensionale che, in un’epoca caratterizzata da una Settima arte sempre più povera di idee originali e in preda al continuo recupero di soggetti già trasformati in film, non poteva fare a meno di generare questo secondo episodio, non più diretto da Aja, ma dal John Gulager, il responsabile dei tre Feast.
Ecco la trama, se si può chiamare tale: “L’apertura di un nuovo e spettacolare parco acquatico diviene motivo di attrazione per i giovani di una tranquilla cittadina americana. Tra alti scivoli da cui lanciarsi e grandi piscine in cui sollazzarsi, i ragazzi vedranno trasformarsi il divertimento in incubo quando, attraverso le condutture idriche, un gruppo di piranha dai denti affilati come lame infesterà le acque del posto, uccidendo con attacchi rapidi e brutali chiunque capiti sotto tiro, con le autorità locali incapaci di fermarli e con la studiosa Maddy, insieme agli amici Kyle e Barry, intenta a trovare una soluzione per porre fine ai famelici attacchi”.
Piranha 3DD
Il cinema di John Gulager è puro cinema d’avanzi, proprio come recita il secondo capitolo della trilogia di “Feast”, appunto “Sloppy Seconds”. Ricicla, impasta, rifrigge gli ingredienti dei suoi film precedenti e, in questo caso del remake a cura di Alexandre Aja, e come nel menù di mezzogiorno di qualsivoglia ostaria/trattoria che si rispetti propone una “pasta pasticciata” che potrà risultare indigesta per alcuni e saporita per altri.
E il cast? Se non fosse per David Hasselhoff, che nel ruolo di se stesso qualche sorriso riesce a strapparlo, e per la piccola ma fulminante apparizione di Christopher Lloyd (quando un attore ha classe!) non sarebbe neanche il caso di parlarne. Persino Ving Rhames, che ci propone un bruttissimo omaggio a Planet Terror, riesce ad uscirne sconfitto, adattandosi perfettamente all’atmosfera di questa pellicola, che altro non è se non la pallida copia dell’originale.
Piranha 3DD ha in se la follia della parodia più truce che cerca di allontanarsi dalla seriosità del suo predecessore che al contrario si prendeva un po’ troppo sul serio, ma nel farlo eccede in senso opposto finendo per peccare di una compiaciuta idiozia nel senso più comico e delirante del termine, allontanandosi così anni luce dal suo predecessore, ma anche dall’originale di Joe Dante, prestandosi così ad una veloce e più consona fruizione casalinga.

FABIO BUCCOLINI

I film ritrovati. “Babadook” acclamato come capolavoro…ma scherziamo?

Molto spesso la pubblicità è ingannevole. Questo film ne è un esempio. Uscito in piena estate, è stato pubblicizzato come il miglior horror dell’anno paragonato a capolavori della cinematografia dell’orrore. Niente di più vero.
Babadook
Il progetto dell’australiana Jennifer Kent parte da un suo corto, “Monster”, del 2005. Trovati i fondi per produrre una pellicola vera e propria, imbastisce questo “Babadook”.Chiariamoci, non tutto è da buttare; l’idea di base è abbastanza curiosa o almeno voleva presentare il tema delle possessioni unita alla classica storia dell’uomo nero in maniera diversa dal solito.
Ecco a voi un accenno di trama: “Sei anni dopo la morte violenta del marito, Amelia è ancora in lutto. Lotta per dare un’educazione al figlio ribelle di 6 anni, Samuel, un figlio che non riesce proprio ad amare. I sogni di Samuel sono tormentati da un mostro che crede sia venuto per ucciderli entrambi. Quando l’inquietante libro di fiabe Babadook arriva in casa, Samuel è convinto che il Babadook sia la creatura che ha sempre sognato. Le sue allucinazioni diventano incontrollabili e il bambino sempre più imprevedibile e violento. Amelia, seriamente spaventata dal comportamento del figlio, è costretta a fargli assumere dei farmaci. Ma quando Amelia comincia a percepire una presenza sinistra intorno a lei, inizia ad insinuarsi nella sua mente il dubbio che la creatura su cui Samuel l’ha messa in guardia possa essere reale.
Babadook 2
Il film abbraccia una “filosofia più orientale”. Il legame madre-figlio e la paura di natura psicologica ricordano molto film come “The Ring” o “Dark Water”. L’opera è ricca di citazioni, lo stesso Babadook sembra ispirarsi ad alcuni classici del cinema espressionista come “L’uomo che ride” di Paul Leni.
Come tutte le pellicole orientali di rilievo in questo genere, “Babadook” cerca di creare terrore nello spettatore tramite il classico canone del “vedo non vedo” ma la tensione stenta ad arrivare. La pellicola parte dopo abbondanti 45 minuti, e tutta l’originalità e curiosità che aveva creato nei primi 5 si perde pian piano per strada arrivando ad un finale presso che scontato lasciando lo spettatore a chiedersi: ma perché? La curiosità di quest’ultimo non è data da un finale aperto che preannuncia un sequel ma a gravi carenze di sceneggiatura che mandano in confusione lo spettatore fino all’epica conclusione che si può classificare proprio come ridicola.
Una nota a favore dell’intero progetto è il sonoro davvero ben realizzato, con tanti scricchioli, rumori sinistri e porte che cigolano; l’unico senso di angoscia che suscita allo spettatore lo danno proprio questi elementi.
Se per l’aspetto horror il film non è affatto questo capolavoro che ci si aspettava, i tanti applausi della critica sono giustificati. Jennifer Kent scava a fondo nei tormenti della protagonista partendo da una mitologia ben radicata nell’immaginario horror e mostra come si potrebbe trovare la luce a patto di saper convivere con i propri demoni. Perché nonostante i nostri sforzi il male è parte integrante dell’animo umano, solo che non riusciamo a vederlo.
Molti film in Italia non arrivano e questo poteva tranquillamente restare reperibile solo tramite il “mercato” underground. C’erano e ci sono opere che, più di questa, avrebbero meritato il buio della sala.
Vi lascio con un quesito…secondo voi, ne avevamo veramente bisogno???

FABIO BUCCOLINI