Archivio mensile:aprile 2020

I film dimenticati. “Climax” l’horror secondo Gaspar Noé

Il nuovo film di Gaspar Noé è la folle notte di un gruppo di ballerini, fra eros e droghe, in un’inarrestabile discesa negli abissi del delirio.

Climax poster

Da un certo punto di vista Gaspar Noé, più che un regista, potrebbe essere visto come un dj. D’altronde i suoi film sono un po’ come un invito a ballare: l’unica cosa che lo spettatore deve fare è decidere se lasciarsi trasportare dalla musica e dalle luci psichedeliche oppure se abbandonare il locale per evitare il mal di testa. Non ci sono mezze misure o sfumature; è difficile poter pensare di rimanere seduti in disparte a guardare gli altri che ballano. E forse, mai come con “Climax”, il regista argentino è riuscito a tradurre questa sua idea di cinema per immagini. Il film viene definito come un mashup tra “Step Up” e “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. È un paragone tanto bizzarro quanto calzante per dare un’idea dell’opera di uno degli autori più controversi del cinema contemporaneo, girata in appena due settimane in una scuola abbandonata della periferia di Parigi e presentata alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2018. Un film radicale fin dalla sua impostazione, che il regista franco-argentino trasforma in un’allucinata parabola di frenesia e di morte sviluppata nel corso di novanta, frastornanti minuti.
“Climax” è uno di quei titoli che puoi amare o odiare: il fascino è direttamente proporzionale alla repulsione. Forse è una sfida fare tanti film mutanti tutti insieme. Che ribaltano il concetto di tempo. in un unico spazio. Dove comincia? Dove finisce? La nascita e la morte. L’euforia e la disperazione. Quest’opera è frenesia, estasi, tormento e tenebre. Potrebbe partire dalla fine. Come “Irréversible”. Un ventina di giovani ballerini si riunisce per uno stage di tre giorni in un collegio in disuso. Ballano, si ubriacano, sembrano tutti su di giri. Poi c’è qualcosa nella sangria. E il clima cambia rapidamente.

Climax

Un vortice visivo che tende a risucchiare personaggi e spettatori in un’escalation di sensazioni ed eventi senza via d’uscita. Un ballo mortale in cui i corpi progressivamente si deformano, perdono la propria unicità e grazia, diventando un magma di carne, sudore e sangue di cui a tratti sembra quasi di sentirne l’odore. Un climax viscerale orchestrato per mettere ancora una volta al centro del discorso l’inesorabile forza distruttiva del tempo che, come un inarrestabile conto alla rovescia, travolge ogni cosa riportandola al punto di partenza. Visivamente potentissimo. Strutturalmente estremamente audace. Con un piano sequenza inarrestabile in un ballo collettivo senza respiro. Tra Erik Satie e i Rolling Stones. In un clima di festa, di colori che esplodono. Un massacro di cui Noé ci rende spettatori, ma mantenendo sempre un netto distacco emotivo rispetto a personaggi di cui sappiamo poco e nulla: è l’assunto di un film in cui il coinvolgimento sensoriale – i suoni, le luci, i colori, il dinamismo dell’azione – surclassa quello emotivo. Un film concepito come un tenebroso baccanale, in cui la dimensione dionisiaca sconvolgerà qualunque ipotesi di razionalità e di ordine, fino al rovesciamento (letterale) di questo microcosmo circoscritto, teatro di un rituale orgiastico destinato a culminare in un inevitabile tributo di sangue.
Gli eccessi sono la parola d’ordine in questo dramma dalle derive ironiche, grottesche, dai sussulti thriller, con il destino di alcuni comprimari che provoca una crescente suspense mista a disagio e diverse sequenze che sono già diventate cult.
Dopo un viaggio istintivo e puramente emotivo come quello proposto da “Climax”, nel momento in cui la musica finisce e le luci si riaccendono, restano nella mente sensazioni, flash e sonorità confuse; ma il rischio è che tutto venga dimenticato in fretta, che di indelebile rimanga poco: perché il cinema di Gaspar Noé è un’esperienza al contempo travolgente e fine a se stessa, ipnotica e respingente, geniale, divertente, estrema e…gratuita.

FABIO BUCCOLINI

“The Place”, cosa vuoi davvero è una questione di dettagli

Dopo il grande successo di “Perfetti sconosciuti” il regista Paolo Genovese cambia totalmente genere e ci regala un’opera atipica per il panorama cinematografico italiano.

The Place

Che cosa saresti disposto a fare per ottenere quello che vuoi?. È più o meno questa la grande sfida con cui “The Place” ti attira. Una domanda forte, che cominci a farti anche tu. E allora pensi: vediamo come la risolvono i personaggi interpretati da quel fortissimo cast.
Paolo Genovese torna alla regia dopo il grande successo di “Perfetti sconosciuti” con “The Place”, un film inquietante che indaga l’animo umano, e quanto ciascuno di noi è disposto a spingersi per raggiungere i propri obiettivi. Genovese sceglie di cimentarsi nuovamente in un film corale, con un cast di attori in cui ciascuno brilla nel proprio ruolo. La storia da cui parte ha un tratto in comune con quella di “Perfetti Sconosciuti”: è tanto semplice quanto geniale. L’enigmatico uomo senza nome interpretato da un solido Valerio Mastandrea, costantemente asserragliato dietro il tavolo sul fondo di un dinner che sembra uscito direttamente dalle strade della Grande Mela, riceve uno dopo l’altro uomini e donne diversissimi tra loro, con la promessa di farne avverare i desideri in cambio dell’esaudimento di compiti il più delle volte riprovevoli.
L’ambientazione circoscritta è quella di un bar di Roma, chiamato appunto The Place, in cui un individuo misterioso siede perennemente a un tavolo in fondo al locale, ricevendo di volta in volta le visite di un disparato gruppo di uomini e donne, desiderosi di ottenere qualcosa da lui. È l’assunto alla base di “The Booth at the End”, serie televisiva americana non troppo nota risalente al 2010, che ha offerto a Genovese e alla sua co-sceneggiatrice Isabella Aguilar il soggetto per questo “The Place”.
L’individuo protagonista di tali incontri non ha un nome e sfodera l’atteggiamento serafico e il pacato distacco di Valerio Mastandrea, che torna a farsi dirigere da Genovese dopo “Perfetti sconosciuti”. Tutti coloro che si presentano al suo cospetto hanno un desiderio da far avverare: che si tratti di banali sogni erotici, di guarigioni miracolose da handicap o malattie o di rapporti da ripristinare (o azzerare). E l’uomo, dopo averli ascoltati imperturbabile prendendo appunti su un voluminoso libro nero, si dichiara disposto a esaudirne le richieste, ma a una condizione: ciascuno di loro, per vedere la propria speranza trasformarsi in realtà, dovrà compiere qualche sorta di misfatto. Pure in questo caso, il valore delle ‘missioni’ assegnate a ciascun comprimario è assai variabile: si passa dall’infrazione di un voto di castità al caso più grave, ovvero un’autentica strage.

THE PLACE 1

Il film di Genovese disturba, perché tocca situazioni nelle quali ciascuno di noi può rimanere coinvolto, ed è impossibile non porsi l’annosa domanda: io cosa arriverei a fare per risolvere una situazione che mi sta a cuore? È questo il nocciolo del racconto di Genovese: esistono limiti inamovibili che regolano il comportamento di ciascuno, o l’asticella dell’etica si sposta a seconda della situazione che si vive?
“The Place” conserva una bellezza cristallina per le tematiche che affronta e per aver portato sullo schermo un cast eccellente dove nessuno sfigura.
Il film rimane dentro per quell’ordinaria umanità che rappresenta, per quella carrellata di volti e richieste difficili da scordare, perché riesce a mostrare con chiarezza che da ogni singola nostra azione ne derivano delle altre, che non sempre si allineano con le intenzioni iniziali.
Genovese sembra voler ricordare che nessuno ci obbliga a fare niente, che abbiamo sempre una seconda strada da percorrere e che le vite sono tutte interconnesse, e ciò che può sembrare banale per una persona, può essere di vitale importanza per un’altra.
“The Place” è il coraggioso tentativo di portare al cinema un’opera prettamente teatrale per far riflettere il pubblico su quello che veramente è importante, ma ricordate…è tutta una questione di dettagli.

FABIO BUCCOLINI

“Guns Akimbo”, il fight club del nuovo millennio

Scritto e diretto dal regista neozelandese Jason Lei Howden, “Guns Akimbo” ha gli elementi classici di un film action a base di tanta adrenalina e poche chiacchiere. Iperviolento, a tratti demenziale, quest’opera estremamente attuale ci mostra quello che l’utilizzo deviato della tecnologia porta nelle nostre vite.

Guns akimbo

La pellicola impiega circa cinque minuti ad entrare nel vivo dell’azione e ci resta per tutta l’ora e mezza che compone questa psichedelica odissea con un ritmo serrato ormai tipico di questo genere catalogabile come B Movie; un ambito in cui Jason Lei Howden sembra trovarsi a suo agio, specialmente perché gli permette di sbizzarrirsi con simpatiche soluzioni fumettistiche che evidenziano il suo retaggio di esperto di effetti speciali.
C’è tutto in “Guns Akimbo”, ma ogni cosa è declinata nella sua versione tanto estrema da risultare improbabile, irrealistica, iperbolica, incredibile, irresistibile. Come Miles, nerd insoddisfatto condannato ad essere vittima perenne di tutti e catapultato improvvisamente al centro dell’azione più rischiosa; con tanto di pistole avvitate alle mani e corse in mezzo alla strada in mutande, vestaglia e pantofole a forma di leone. O Nix, killer per divertimento che non sbaglia un colpo e butta giù tutti nonostante sia esile e minuta. Il tutto accompagnato da battute sarcastiche e faccine da risultare ridicole all’ennesima potenza.
Rapida, ben ritmata ma un po’ ingenua e prevedibile, la trama galoppa verso l’inevitabile conclusione senza farsi problemi. Lo studio dei tempi è un evidente pregio della pellicola, un film consapevole dei suoi limiti che non vuole spingersi oltre quando non serve. L’ora e mezza di durata non lascia cose in sospeso.
Daniel Radcliffe è uno dei punti di forza. Grazie all’esuberanza con cui indossa un ruolo tanto atipico in una pellicola lontana anni luce dai blockbuster a cui siamo abituati. Ma aver partecipato a questo film è una scelta coerente con il percorso artistico atipico che l’attore ha deciso di seguire, lontano dalla Hollywood che conta.
Pur nel suo esplicito intento spensierato, “Guns Akimbo” ha comunque un sotto testo critico verso la società moderna. Il successo di un gioco come Skizm e il fatto che ciò sia la cosa più realistica del film è una chiara evidenza di cosa si voglia sottolineare. La gente comune, ormai si rispecchia quasi esclusivamente con il mondo del web e la pazzia ormai è diventata la normalità. Il film ci mostra a che punto siamo arrivati senza volersi redimere minimamente per questo estremismo che siamo portati a fare o vedere, come lo stesso protagonista che non cerca alcun riscatto se non quello di essere il più bravo a prendere in giro gli altri nelle community in rete. Aspetti che il film mostra in tutta la loro pochezza.
“Guns Akimbo” non si può definire un capolavoro per via di alcune incoerenze nella trama o per meglio dire nello sviluppo; ma il film sbalordisce più di quanto ci si possa aspettare.
Una visione iperviolenta del mondo che potrebbe arrivare, dove sangue e pistole sono la nuova legge.
Negli anni novanta c’era il Fight club e non si doveva parlare del Fight club…adesso c’è Skizm ed è rigorosamente obbligatorio diffondere la sua preghiera.

FABIO BUCCOLINI

“Freud”, la serie di Netflix che stravolge la realtà

La serie prodotta da Netflix sulle origini del fondatore della psicoanalisi, tra le più viste del momento, non convince a pieno, dando in pasto ai telespettatori una figura di Freud distorta dalla realtà.

Freud

“Freud” ha conquistato il primo posto nella Top 10 della settimana su Netflix quindi è legittimo che gli abbonati si domandino: ma vale veramente la pena perdere tempo nella visione?
Se la curiosità e l’interesse sono dettati dall’attrazione che il neurologo, psicanalista e filosofo austriaco ha sempre esercitato sul mondo, nella speranza d’addentrarvi nei profondi e remoti meandri della mente umana, siete ben lontani dal trovare quel che state cercando; o meglio, troverete tutt’altro.
La serie è ambientata nel 1886 a Vienna. Sigmund Freud è un giovane neurologo incredibilmente affascinato dall’ipnoterapia, scoperta durante un viaggio-studio in Francia. Tornato a Vienna inizierà a sperimentare teorie innovative, che troveranno l’opposizione di un medico tedesco molto stimato,Theodore Meynert e vede Freud sulle tracce di un serial killer, insieme ad un ispettore di polizia e una medium.
Diversamente dalle aspettative, “Freud” non si propone come un biopic sulla sua gioventù, bensì, prende tutt’altra strada presentandosi come un thriller con elementi di mistero. Si mostra un personaggio ancora giovane, inesperto e acerbo. Il Freud che viene presentato non è il filosofo che ci hanno fatto studiare a scuola, ma un uomo dipendente dalla cocaina e malvisto da tutta la comunità scientifica, che fatica a farsi un nome e non riesce a dimostrare la veridicità delle sue teorie.
Come già detto precedentemente “Freud” si prende molte libertà e seppur tratti eventi mai accaduti, non fa a meno di far cenno alla storia. Nel corso delle otto puntate, infatti, vengono presentati molti personaggi ed alcuni di questi sono figure esistite realmente, o perlomeno, ispirate ad esse. Freud, nel tentativo di dimostrare le proprie teorie, trova l’appoggio del Dottor. Josef Breuer e il disappunto del professore Theodore Meynert. Entrambi, infatti, sono personaggi realmente esistiti e per quanto riguarda il primo, ha avuto un ruolo importante nella formazione del filosofo. La stessa Fleur Salomè, uno dei personaggi principali e chiave al fine del proseguimento della trama, è ispirata ad una figura esistita realmente, Lou Andres Salomè, la quale è stata una delle muse ispiratrici più enigmatiche dell’ottocento. Il suo incontro, inoltre, ha permesso a Freud di rinnovare le proprie idee e teorizzare la dualità tra Eros e Thanatos.

Freud 1

L’ ipnosi, è al centro di tutto ed il modo in cui il suo studio è stato adattato al soggetto, risulta essere uno dei fattori più interessanti. D’altro canto, però, non stiamo comunque parlando di un capolavoro. Questa serie è una versione splatter di “Sherlock” e de “L’Alienista”, troppo romanzata, e tutto tranne che una serie su Freud. Meno riti satanici e sangue avrebbero dato alla produzione la vera enfasi e il cuore di cui purtroppo è sprovvista.
L’unico modo per godere della serie è vederla svuotando la mente ed ogni aspettativa; in questo modo il fantastico mondo di questo ipotetico Freud potrà, forse, sorprendervi.

FABIO BUCCOLINI