Archivio mensile:novembre 2020

I film dimenticati. “Paura e delirio a Las Vegas”, l’on the road allucinogeno di Terry Gilliam

Terry Gilliam e due dei più talentuosi attori della loro generazione; un irriconoscibile Johnny Depp, reso calvo e con il volto costantemente deformato, e Benicio del Toro, ingrassato appositamente di circa 20 Kg, sono la ricetta di un film diventato cult con il passare del tempo, essendo stato un flop d’incassi all’uscita.

“Paura e delirio a Las Vegas” è ispirato al romanzo Fear and Loathing in Las Vegas, un racconto autobiografico del giornalista e scrittore Hunter S. Thompson, basato sulle sue scorribande a Sin City in compagnia del proprio avvocato.

Fu lo stesso regista a universalizzare il senso del romanzo di Thompson. Quando “Paura e delirio a Las Vegas” vede la luce nel 1998, provocando reazioni a dir poco divise in quel di Cannes, per poi essere quasi totalmente massacrato dalla critica in patria; l’Europa, come d’abitudine con il regista, si dimostrerà invece più clemente. Rimettere mano agli eccessi e alle schizofrenie di un’epoca irripetibile. Il Gilliam che aveva attraversato l’oceano per unirsi ai folli Monty Phyton, segnando una cesura netta con la propria patria, torna a Hollywood quando le sirene reazionarie già iniziano a fare capolino, e cerca di mettere a soqquadro un sistema solido, stratificato, eppure sempre più prossimo alla mediocrità produttiva.

Quest’opera è stata caratterizzata da una genesi tormentosa e oltremodo lunga, a causa dello scarso budget di produzione, del continuo passaggio di mano dello script e della a lungo infruttuosa ricerca del cast adatto. Dopo aver ricevuto il rifiuto di numerose case di produzione, essere stata nelle mani di Alex Cox e aver avuto (quasi ufficialmente) coppie di attori protagonisti e avendole perse per i più disparati motivi, sembrava non avere futuro. Essa finalmente prese vita quando fu proposta a Gilliam, il quale riscrisse quasi per intero la sceneggiatura e i due ruoli principali vennero affidati a Johnny Depp e Benicio del Toro.

Ambientato negli anni ’70 negli Stati Uniti, questo road movie psichedelico ha l’ambizione di riflettere intorno alla chimera che i giovani hanno rincorso durante la grande ondata di LSD a San Francisco, periodo da cui sono nati gli artisti della beat generation, in cui i ragazzi credevano di poter cambiare il mondo con la sola forza dell’amore e della pace. Utopia infrantasi nel giro di pochi anni.

Il film è costruito con maestria: il filo narrativo non è fortissimo, ma insieme alla fotografia e alle inquadrature lisergiche serve a enfatizzare il vero ‘viaggio’, quello mentale, a base di droghe psicotrope, non quello finalizzato a correre sul luogo degli eventi per immortalarli con la propria penna. Quello è solo un pretesto per mostrare un percorso diverso, parallelo a quello triste e ordinario di coloro che sperano di cavalcare trionfanti il Sogno Americano. Un viaggio a base di mescalina, cocaina, metedrina, LSD, oppio, etere puro, che ha lo scopo non solo di ritrovare quell’apice che i giovani della seconda metà degli anni ’60 hanno vissuto, ma di scoprire in fondo qual è il vero senso della vita, attraverso l’illusoria espansione di coscienza promossa da Timothy Leary in quegli anni.

Terry Gilliam tenta un’impresa realizzata pochissime volte prima di lui a livelli così alti (a memoria ricordiamo solo Il pasto nudo di David Cronenberg), cioè immergersi completamente nella mente di due persone in preda al delirio di droghe e alcool, mostrandoci con ardite scelte registiche e una perfetta computer grafica le loro allucinazioni, la distorsione della loro realtà e le inevitabili conseguenze sui loro comportamenti.

Quest’opera vuole descrivere un’epoca e una condizione sociale e personale. Non si deve credere che l’intelligenza e la conseguente lettura di un mondo imperfetto e di una società a pezzi conduca l’individuo a danneggiarsi e stordirsi. Bisogna scoprire una mentalità errata per poi poterla evitare.

Da vedere, capire e riflettere su ciò che ci viene mostrato.

E come disse il nostro caro Raoul Duke:

“Ecco che se ne va. Uno dei prototipi di Dio, un mutante ad alta potenzialità neanche preso in considerazione per le produzioni di massa. Troppo strano per vivere e troppo raro per morire.”

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “Doom generation” la gioventù secondo Gregg Araki

Un film necessario per capire cosa sono stati gli anni 90, e cosa sarebbe accaduto in futuro. Un vero e proprio capolavoro underground generazionale volutamente eccessivo e sgradevole.

Film manifesto della poetica di Gregg Araki, “Doom Generation” è un apocalittico on the road ambientato sullo sfondo di un desertico paesaggio americano. Il regista palesa veramente sotto gli occhi di tutti il vuoto di una generazione condannata tra programmi televisivi dementi, AIDS e sale da videogames, disoccupazione e perdita dei valori; scodella un mix tra Tarantino, il David Lynch di “Cuore Selvaggio”, sequenze erotiche ai limiti del porno e colonna sonora martellante in stile Rave party.

 Esteticamente vicino agli “Assassini “nati” di Oliver Stone, è come trovarsi di fronte ad uno spettacolo selvaggio che solo apparentemente è avulso e distante dalla realtà di quei giovani negletti e alienati cresciuti davanti ai bagliori del tubo catodico e dei video Mtv.

Questa la sinossi: “Jordan White (James Duval) e Amy Blue (Rose McGowan) sono una giovane coppia che intraprende un viaggio senza meta on the road. Incontrano Xavier Red (Johnathan Schaech) a un rave e lo prendono a bordo, ma le cose sfuggiranno loro di mano. Tra omicidi, risse e sesso a tre, il viaggio continuerà all’insegna del nonsense”.

Tra gli attori una bellissima Rose McGowan agli inizi della carriera che spicca su tutti e non disdegna di mostrare il suo corpo, il suo rossetto rosso e gli occhialoni scuri.

Araki dirige un film apparentemente estremo ma estremamente sincero. Costruisce un’opera andando contro le regole hollywoodiane: un road movie ambientato prevalentemente in interni, un linguaggio senza mezzi termini, coreografie sessuali che sfiorano il soft-core arrivando a raccontare lo sguardo dei suoi personaggi in termini onirici, con un certo gusto weird e non-sense. Non vuole spiegare il perchè delle cose; semplicemente non gliene può fregar di meno, non c’è un perché. Tutto quello che sembrerebbe un nulla di fatto, è assolutamente perfetto: non ci sono coordinate da seguire, non c’è inizio o fine, è solo un’isola nel deserto. 

L’autore ci mostra quello che non gli piace con stile ironico e grottesco. Lo splatter fumettistico e i personaggi sono al di fuori dei canoni, sconvenienti e sporchi come il mondo che li circonda.

Insomma, “Doom Generation” è un delirio, un atto di coraggio praticamente snobbato dal mondo intero che può irretire, irritare, farsi amare e comprendere. Imperfetto e strampalato, però almeno qualcuno ci ha provato a dipingere (senza voler far cassa) quella massa informe che è la generazione x e solo per questo merita di essere un cult.

Un film essenziale per comprendere a pieno gli anni 90.

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “Lo zio di Brooklyn”, l’esordio alla regia di Ciprì e Maresco

Franco Maresco e Daniele Ciprì, riprendendo il discorso affrontato con Cinico TV filmano un alieno, un uomo attualissimo e volutamente freak. Una bomba che colpisce e devasta l’immaginario e la prassi del cinema italiano. Un capolavoro.

Il primo lungometraggio di Daniele Ciprì e Franco Maresco è un’opera anarchica e frammentata, costellata da gran parte degli attori non professionisti già visti sul piccolo schermo e capace di sorprendere lo spettatore non tanto per la storia, quanto invece per le intuizioni meta-cinematografiche che ricordano continuamente di trovarsi di fronte un pasticcio dissacrante e irriverente. L’immaginario legato alla Sicilia tutto famiglia, processioni, religione, rituali, mafia e virilità (il cast, lunghissimo, non comprende neanche una donna) è piegato all’eccesso e all’iperbole tragicomica: i due autori radicalizzano la propria idea di cinema; fare di necessità virtù coi pochi mezzi a disposizione per privilegiare una messa in scena in cui la desolazione della scenografia sia più presente possibile, ed esasperano la propria visione del mondo rivelando come fonti di ispirazione il neo-realismo pasoliniano e la leggerezza felliniana.

Questa la trama: “Nella periferia palermitana, nell’atmosfera da dopo bomba, è arrivato un misterioso “mammasantissima” americano, che la famiglia Gemelli dovrà ospitare e nascondere. Intorno all’uomo, che non parla mai, non dorme mai, non mangia mai, si muovono una serie di personaggi strani ed inquietanti: maghi, boss mafiosi, nani che intrecciano le loro vite in una commedia cinica”.

Nell’orrido dell’immaginario anni Novanta, nei colori accesi di una televisione trasudante disimpegno, nella vaga e vana resistenza di un cinema sempre meno spigoloso e scomodo, in cui l’impegno si traduce in una collocazione di genere e non più in una postura intellettuale, etica e morale, “Lo zio di Brooklyn” è un atto politico, corrosivo e che non concede appigli né spiragli. Se si accetta la crudezza esibita del film si viene triturati. Se non la si accetta… Si viene triturati lo stesso. Anche per questo il pensiero egemone della cultura italiana, a partire da buona parte della critica, vi si scagliò contro, in un processo preventivo che ebbe poi la sua coda allucinata e allucinante qualche anno più tardi, con “Totò che visse due volte” (quì la recensione https://fabiobuccolini85.wordpress.com/2014/09/09/i-film-dimenticati-toto-che-visse-due-volte-il-film-vietato-a-tutti-che-deve-essere-assolutamente-visto/). Evidentemente un film come questo non s’ha da fare, perché gli stracci che mostra con furore sono a conti fatti i figli più nobili e sinceri del neorealismo. A venticinque anni di distanza dalla sua realizzazione “Lo zio di Brooklyn” è ancora un oggetto non identificato che si disperde nel nulla. La sua polvere la si è nascosta sotto il tappeto, per evitare che gli invitati al banchetto della produzione cinematografica ne avvertano la presenza. Riprendere le fila del discorso è ormai utopico, perché l’Italia è andata avanti standardizzandosi sempre più. Ma la “bombetta”, come la chiama Maresco, può sempre esplodere in faccia ai banchettanti.

“Lo zio di Brooklyn” non fu solo un debutto, bensì il biglietto da visita di due teorici e intellettuali che restituì linfa vitale al dibattito cinematografico e culturale (arrivato all’apice con Totò che visse due volte) e segnò l’inizio di un rigore e un’indipendenza creativa (il rapporto con De Laurentis si interruppe subito dopo le polemiche di stampa e opinione pubblica, in primis siciliana) ancora inalterati.

FABIO BUCCOLINI