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“IL SIGNOR DIAVOLO” IL RITORNO ALLE ORIGINI DI PUPI AVATI

Dopo alcune pellicole non troppo degne di nota, Pupi Avati torna in sala con una storia basata su un suo romanzo che sa tanto di un ritorno alle origini della sua carriera.

Il signor diavolo

Il ritorno all’horror padano giova a Pupi Avati; “Il signor diavolo” è lavoro ben riuscito grazie alle cupe atmosfere e all’analisi del potere del Male, della superstizione e della religione bigotta degli Anni ’50 nel cattolicissimo Veneto.
Esiste una certa aura mitologica intorno agli horror di Pupi Avati. Con “La casa dalle finestre che ridono” in testa, la modesta pattuglia di film realizzati tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80 ha generato un culto alimentato anche dal contrasto con quella che è stata la filmografia di Avati da lì in poi.
“Il Signor Diavolo” è un film che entra completamente nell’ottica del “classico” horror all’italiana, genere che in realtà non ha più rappresentanti da un bel pezzo, che è fiorito principalmente nello scorso decennio per mano di cineasti ormai molto anziani come Dario Argento e Lucio Fulci.
Si tratta di una pellicola che non può piacere a tutti gli amanti attuali del genere horror, ma che incontra sicuramente i gusti di chi apprezza appunto le particolarità tecniche che il genere ha da sempre: in particolare, se si ama un certo modo di usare la macchina da presa, una certa fotografia ed una certa gestione della narrazione si potrà godere immensamente di un film che dal punto di vista tecnico è semplicemente perfetto, in cui l’ambientazione tetra e le inquadrature fanno da soli gran parte del lavoro.
“Il signor diavolo” ha come pregio principale, prima di ogni valutazione narrativa, quello di un’ambientazione bellissima, cupa, adagiata lungo la laguna livida e calma che è quella di Comacchio per larga parte, ma traslata narrativamente un po’ più a nord a Venezia.
Il risultato è un film cupo, in certi tratti addirittura pessimista, che fotografa ed analizza come l’irrazionale, le paure, la malvagità e la costante ricerca dell’uomo di potere di toccare con mano il potere satanico diventino gli strumenti con cui l’oscurantismo e il potere della religione si impadroniscano dell’essere umano.

 

FABIO BUCCOLINI

Terrence Malick il filosofo della settima arte

Sei film in quarant’anni e una miriade di star pronte a tutto per apparire in un suo film. Tutto questo è Terence Malick, il cineasta filosofo che nella sua riservatezza è riuscito a contaminare tutto il sistema hollywoodiano.

**EXCLUSIVE** The elusive Terrence Malick directs a scene for "Knight of Cups" on location in Los Angeles

Tutto ormai sembrava scritto, il regista statunitense, è il meno prolifico di tutti. In oltre 30 anni di carriera ha girato solo sei film. Ma scopriamo con grande clamore che ora che ha tre progetti pronti solo ed esclusivamente per il 2015. Questa è la strana, anzi stranissima “seconda vita” artistica di terrence malick che, ormai settantenne, ha deciso di dare una svolta alla sua carriera e mettere da parte la sua ossessiva riservatezza per vivere il lavoro sul set in modo meno intransigente.
Malick è sempre rimasto nell’ombra: mai presente a festival o premiazioni, per lui anno parlato i suoi film. Addirittura alla notte degli Oscar 1999, quando venne candidato il suo “La sottile linea rossa”, fece mettere a contratto la clausola che imponeva alla produzione di non usare sue foto per la promozione della suddetta pellicola.
I suoi studi filosofici, e la profonda credenza nella religione hanno contraddistinto molto il suo modo di concepire le pellicole. In ogni suo film, ci sono rimandi visibili alla creazione del mondo oppure a una visione della vita più tosto particolare concepita tramite i suoi studi nell’età giovanile. Il suo, è un cinema istintivo e poco programmatico. Una cosa è certa, il suo stile ha preso una direzione ben precisa, confermata anche dai suoi interpreti. Ha infatti ridotto al minimo il peso della sceneggiatura e della pre-produzione, decidendo di lasciare che la macchina da presa catturi istanti di vita imprevisti e che attirano la sua attenzione quando si è già sul set. Un cinema, insomma, che si crea e si nutre della quotidianità nel senso più profondo che questo possa significare.
I suoi grandi successi sono ormai diventati dei veri e propri cult. “La rabbia giovane” e “I giorni del cielo” negli anni 70, poi una lunga pausa di oltre vent’anni. Il ritorno con “La sottile linea rossa”, vincitore a Berlino e pluricandidato agli Oscar, è stato un vero e proprio boom, i critici hanno osannato questo rientro ad Hollywood come il suo più grande capolavoro. Dopo “La sottile linea rossa” la sua attività è diventata molto più prolifica, infatti i suoi tempi di gestazione si sono notevolmente accorciati e dopo sei anni torna in sala con la sua versione personale di Pocahontas intitolata “The new world” e interpretata da Colin Farrel. Dopo altri sei anni si presenta al Festival di Cannes con “The tree of life” il quale vince la Palma d’oro. Infine l’anno dopo fa un fugace passaggio a Venezia con “To the wonder”. Adesso il cineasta statunitense si prepara a una stagione cinematografica intensissima. Due i film già in fase di post-produzione e un documentario.
Il primo è “Knights of cups”, che verrà presentato al prossimo Festival di Berlino. Un’opera che ruota interamente attorno alla figura di un uomo, con le sue trasgressioni e i suoi eccessi. nei panni del protagonista Christian Bale che, nelle interviste, ha parlato di un Malick in grandissima forma, pieno di idee.
Ecco a voi la sinossi ufficiale: Rick è uno schiavo del sistema hollywoodiano. È drogato di successo, ma al contempo si dispera per la vacuità della sua esistenza. Ha trovato casa in un mondo di illusioni, ma cerca la vita reale. Come la carta dei tarocchi che dà il titolo al film, Rick si annoia facilmente, e ha bisogno di nuovi stimoli dall’esterno. Ma il Cavaliere di Coppe è anche un artista, un romantico e un avventuriero.
Dovrebbero passare pochi mesi da questo titolo e dovrebbe arrivare un secondo film, ancora senza un nome, arricchito da un cast senza precedenti; ad affiancare ancora una volta Christian Bale ci saranno Cate Blanchett, Natalie Portman, Michael Fassbender, Ryan Gosling, Rooney Mara, Benicio Del Toro, Val Kilmer e Holly Hunter. Insomma, il meglio di hollywood si dà appuntamento sul set. La storia dovrebbe trattare ancora uno dei temi cui il regista è più affezionato: due triangoli amorosi si incroceranno provocando una serie di imprevedibili e drammatiche conseguenze.
Per concludere in bellezza, sempre nel 2015, arriverà anche quello che forse è il più misterioso e ambizioso dei tre progetti: un documentario dal titolo “Voyage of time”, con Brad Pitt che farà da voce narrante all’imponente tentativo di raccontare “la nascita e la morte dell’universo conosciuto”. Un’idea che a Malick deve essere venuta proprio mentre lavorava con Pitt ai tempi di “The tree of life”: durante la lavorazione del film, infatti, al regista vennero in mente degli onirici e folli inserti che, tra una sequenza e l’altra che mettevano in scena i cambiamenti nella famiglia di provincia protagonista della storia, ritraevano immagini dell’origine “della vita”, dai momenti della nascita del pianeta a quelli dell’estinzione dei dinosauri.
Insomma che dire? Tutto questo è Terrence Malick, o lo si ama o lo si odia, scegliete voi.

FABIO BUCCOLINI

“The hunder of invisible game”. L’esordio alla regia di Bruce Springsteen

Bruce Springsteen esordisce alla regia con un “corto” (in realtà si tratta di un lungo videoclip) realizzato assieme al fidato Thom Zimny. Dal 9 luglio il corto è sul sito ufficiale del Boss.

Bruce Springsteen

Nonostante Springsteen sia sempre una delle figure più influenti nel panorama musicale attuale, dopo aver visionato il corto posso dire apertamente che non si tratta di un capolavoro. Springsteen non è un attore di particolari doti, e il video, per quanto ben realizzato, non esce dai canoni dell’ovvio.
L’inizio fa sperare in una vicenda sentimentale e dark, ma poi tutto si risolve in un nulla di fatto. Ma la canzone, “The hunter of invisible game”, che offre anche il il titolo al corto, è molto bella, una delle cose migliori di “Hig hopes”.
“Per gran parte dell’anno, Thom Zimny ed io – spiega Bruce sul suo sito ufficiale – abbiamo parlato dell’idea di girare un cortometraggio per ‘Hunter Of Invisible Game’. Abbiamo finalmente completato l’opera e pensiamo che sia uno delle nostre migliori creazioni. Grazie, Thom, per il duro lavoro e la fraterna collaborazione. Siete grandi, tu e la tua squadra. E a tutti voi residenti nella E Street Nation, speriamo che vi piaccia! Ci vediamo lungo il cammino.”
Questa è solo la ciliegina sulla torta per quanto riguarda il boss. Nonostante i suoi 60 anni suonati non ha intenzione di abbandonare la scena e per la gioia di tutti i fan, per il futuro, sono attese molte sorprese.
Si fanno sempre più incalzanti i rumors sulle nuove uscite discografiche e sui concerti futuri che a questo punto farebbero parte di un nuovo tour. Secondo Blog It All Night, in autunno il Boss dovrebbe continuare la serie delle «riedizioni» dei suoi primi storici album (già proposte per Born To Run e Darkness On The Edge Of Town) con un cofanetto dedicato a The River.
A Fine anno o all’inizio del 2015, invece, dovrebbe essere in uscita un nuovo album con materiale inedito e in parte già registrato con musicisti non della E Street Band. Le indiscrezioni suggeriscono che Springsteen abbia scelto un ritorno al folk e ad atmosfere acustiche, strada già percorsa più volte in passato (da Nebraska a Ghost Of Tom Joad, da Devils and Dust a The Seeger Sessions).
I concerti, si dice, potrebbero essere costruiti in due parti, una iniziale acustica e senza E Street Band, una seconda parte invece con la sua storica band.
In bocca al lupo Bruce e continua a farci sognare come solo tu riesci!!!!!

 

FABIO BUCCOLINI

Giuseppe Tornatore e il sogno di Leningrad

Uno dei più apprezzati artisti italiani annuncia: forse prenderà il via la produzione del film sull’assedio.

Leningrad

 

Per mesi è stato fra opere d’arte e aste per girare La migliore offerta, ma Giuseppe Tornatore non ha mai smesso di pensare alla Russia e alla sua ossessione che lo accompagna da anni: girare Leningrad.

Nessuno in questi anni a voluto mai scommettere su un film che racconta dell’assedio di Leningrado ma adesso sembra che un produttore americano sia favorevole a questa nuova avventura del nostro partenopeo.

Progetto a cui stava lavorando Sergio Leone al momento della morte e poi ripreso due volte, con altrettanti inceppi, da Tornatore a partire dal 2004.

Per entrambi la prima fonte è il libro I 900 giorni di Harrison Salisbury, pubblicato nel 1969 (e diffuso in Russia solo dopo la caduta del Muro), intenso reportage di quei giorni, dall’8 settembre 1941 al 27 gennaio 1944, in cui morirono di fame e di freddo 1 milione di leningradesi, circa metà della popolazione.

“Questa vicenda – racconta –  è più che mai attuale, una grandiosa metafora della contemporaneità. L’intero pianeta oggi è un’immensa Leningrado assediata dal nemico, terrorismo, recessione, fondamentalismi, conflitti, e incapace di intravedere un futuro certo. Ma deve resistere”.

La lavorazione del film non sarà semplice, ci sono stati già accordi con il produttore Avi Lerner su come migliorare la sceneggiatura e renderlo più appetibile anche agli spettatori d’oltreoceano. Nonostante quello che si è scritto, il soggetto è totalmente di Tornatore, non è mai esistita una sceneggiatura di Leone.

Esistono solamente “due paginette” con l’incipit del film, un folle piano sequenza da fare tremare i polsi a qualsiasi regista: dal primo piano sulle mani di Dmitri Shostakovich intento a comporre la Settima sinfonia in pieno assedio, l’inquadratura, senza stacchi, si allarga alla strada, al movimento di volontari che salgono sui bus, raggiungono i soldati russi e le trincee alle porte di Leningrado, e da lì una panoramica aerea sulla steppa infinita arriva a inquadrare mille carri armati tedeschi.

Inizio magnifico, e quello che era un sogno megalomane al tempo di Leone oggi sta forse per essere realizzato.

Si dovrebbe girare nei dintorni di San Pietroburgo e negli studios di Lerner in Bulgaria.

La fine di questa mega produzione, stimata in 100 milioni di dollari non è ancora certa, ma una cosa è sicura: se Tornatore non riuscirà ad entrare in pre-produzione entro “poco tempo”, trasformerà la sceneggiatura (già pronta) in un libro e accantonerà per sempre questo progetto.

Aspettiamo e speriamo che tutto questo si realizzi.

 

FABIO BUCCOLINI

Rob Zombie racconta Salem con la sua controversa opera sulle streghe dedicata a satana e ai sui accoliti

Che piaccia oppure no, Robert Bartleh Cummings (questo è il suo vero nome) è uno degli artisti di riferimento riguardo la cinematografia horror degli ultimi dieci anni. Cantante, compositore ed infine regista, ha conquistato il ben volere del pubblico circa venti anni fa, quando formò la band alternative metal “White zombie”, che poi sciolse per portare avanti la sua carriera solista.

Rob Zombie

La cosa più importante che possiamo dire è che Rob Zombie delle mode se ne frega.

Se ne frega da dieci anni, da quel 2003 in cui sganciò la bomba “La casa dei 1000 corpi”, oggetto radicale e fuori dal suo tempo che fece impallidire di colpo tutti gli increduli spettatori contemporanei (la pellicola era pronta dal 2001 ma per successivi due anni nessuno aveva il coraggio di distribuirla).

Se ne frega anche delle aspettative dei fan, visto che dopo quell’esordio fu la volta del diversissimo ma ancora più bello La casa del diavolo, western crepuscolare e struggente mascherato da horror.

Ottenne un successo di critica anche maggiore, contribuendo a far assurgere il buon Zombie al rango di nuovo vate del genere.

Poi fu la volta  dei due remake della saga di Halloween, tuttavia, per quanto spingessero ancora di più sul pedale della personale rivisitazione di stilemi classici, delusero però un po’ tutti, sopratutto per quanto riguarda il cruento e inconcludente secondo episodio (non voluto dal regista ma costretto per motivi legati alla casa produttrice) che comunque non è privo di un fascino sopra la norma.

Ora, cambia ancora una volta radicalmente registro: e firma un horror satanico e psichedelico che ha il ritmo lento, ponderoso e solenne, e le sonorità acide, stridule e disturbanti del black metal.

Dopo una parentesi nel cinema d’animazione (The hunting world of el Superbesto) ecco arrivare in questi giorni l’atteso Le streghe di Salem, film prodotto in piena autonomia, con tutte le conseguenze positive (totale libertà di produzione e scrittura) e negative (budget di basso livello, un milione e mezzo di dollari) del caso.

Ancora una volta, e ben più del solito, gran parte del peso della pellicola ricade sulle spalle, e sul fondoschiena, più volte inquadrato in versione nature, della musa-moglie Sheri Moon.

Partendo da una storia, che è una delle più radicate vicende di folklore americano, il film si propaga ipnotico, raccontando una “witch-story” contemporanea trovando proprio nella musica il punto di congiunzione perfetto e perverso tra un passato e un presente diversissimi eppure uguali.

Il percorso della Heidi di Sheri Moon (perfetta nella parte), è reso travagliato da possessioni e dipendenze che superano quelle diaboliche, le quali assumono una valenza metaforica.

Questo racconto, pessimista, Rob Zombie lo mette in scena con modalità che ne confermano un coraggio quasi dissennato, una voglia di osare che si traduce nello spingersi oltre la soglia dell’atteso anche a costo di suonare una nota stonata.

L’autore ha ammesso apertamente che questa pellicola è un omaggio hai grandi registi del passato.

Nelle lunghi piani sequenza ritroviamo il Kubrick di Shining. Per quanto riguarda i movimenti di macchina e la realizzazione della storia è un grande omaggio hai maestri Polansky e Argento. Il più grande omaggio viene fatto al maestro dell’onirico David Lynch nella rappresentazione delle allucinazione che perseguitano la protagonista.

Zombie non copia né scimmiotta, né omaggia con maggiore o minore differenza, semplicemente si cala nello spirito di un cinema anni settanta catturandone con personalità  l’essenza e la forza visionaria.

Procedendo con ritmo lento e ragionato, la pellicola osa sempre di più, libero da preconcetti e sovrastrutture, facendo sprofondare in un incubo malsano e angosciante lo spettatore.

Rob, che ha girato con due lire e in tutta fretta, non ha bisogno di abusare in effetti speciali per catturare e strizzare la mente di chi guarda, gli basta usare la forza del cinema e la sua capacità di stupire con poco.

E ancora una volta ci regala un film che se la ride dei deliri postmoderni e ipertecnologici che sbancano i botteghini di mezzo mondo, e li ridimensiona mettendoli all’angolo con un solo movimento di macchina o una sola, semplice e potente invenzione visiva.

Lungometraggio che sicuramente divide critica e pubblico. Sconsigliato a coloro che vogliono vedere il classico horror “giovanile” dove lo splatter comanda.

Horror vecchio stile e grande regista…..cosa c’è di meglio?????

FABIO BUCCOLINI

David Lynch, l’autore della mente

Quando si parla di Lynch, è uno dei rari casi in cui si può parlare di autore completo. Lui a sperimentato tutto quello che si poteva provare nell’ambito delle arti visive e sonore. Regista, sceneggiatore, produttore cinematografico, pittore, musicista, compositore, attore, montatore, scenografo e scrittore statunitense, tutta la sua creazione artistica è dovuta alla tanto amata meditazione trascendentale.

David Lynch

 

Autore tra i più invidiati degli ultimi 50 anni, non ha mai avuto grandissimo successo al box-office. Oltre all’immenso successo della serie televisiva Twin Peaks, i suoi film sono stati sempre etichettati come troppo complessi per poter essere “esposti” al pubblico.

Le sue pellicole non sono solamente una sequenza di immagini: tramite l’immaginazione visiva e ad una colonna sonora assolutamente perfetta, vengono interpretate dallo spettatore in base alle sensazioni che le opere stesse gli trasmettono.

Nelle sue opere (perché di arte si parla), Lynch non da mai una spiegazione. Secondo lui, ognuno di noi a una propria anima ed un proprio modo di interpretare. Ognuno ha il diritto di poter vedere un film, ascoltare una canzone o ammirare un dipinto, ed assimilare le sensazioni che prova nella visione perché niente è oggettivo, ogni cosa è quello che vogliamo che sia.

La sua complessa carriera di sperimentazione delle arti si deve grazie alla tanto amata meditazione trascendentale. La meditazione permette alla mente di raggiungere uno stato naturale di “consapevolezza senza oggetto” o “senza pensieri” chiamato “trascendenza”, il quale rilasserebbe profondamente il corpo e rinfrescherebbe la mente stessa, apportando vari benefici a chi la pratica.

Grazie ad essa l’artista immagina sequenza per sequenza le sue opere per poi renderle fruibili agli spettatori.

Sperimenta e non è mai banale. Vive di attimi. Non organizza mai ciò che deve fare, ma trasforma in arte le sensazioni che prova minuto per minuto. Un esempio su tutti è il suo ultimo film intitolato “Inland Empire – l’impero della mente”. Gira in parte a Los Angeles e in parte in Polonia, con gran parte degli attori semi sconosciuti e senza un copione. Basava la scena successiva in base a come veniva girata la precedente e gli interpreti erano invitati ad improvvisare per poter trasmettere maggior potenza alle immagini secondo i vari stati d’animo che provavano in quel preciso momento.

Insomma un genio a tutto tondo che distrugge tutte le regole canoniche esistenti. Fuori da tutti i canoni, forse è la personalità più rappresentativa degli ultimi anni, senza il quale, grandi registi odierni non sarebbero nemmeno considerati, uno su tutti il suo pupillo Eli Roth.

La maggior parte di voi lo odierà, ma vi do un consiglio: immergetevi a pieno nella visione di un suo qualsiasi film e cercati di meditare su ciò che vi vuole mostrare….ne rimarrete sbalorditi.

David Lynch, in una parola ONIRICO!

 

FABIO BUCCOLINI

Gregg Araki, un genio ai limiti della follia

Araki nella sua lunga carriera ha sperimentato quasi tutti i generi cinematografici conosciuti. La parola chiave della sua filmografia è appunto SPERIMENTARE. Questo termine spiega a pieno il genio creativo dell’artista che, a parte una piccola folla di seguaci, è quasi sconosciuto al grande pubblico.

Gregg Araki

 

Perchè succede questo? La risposta è molto semplice, perchè come tutti i geni resta incompreso. I suoi film sono un viaggio allucinogeno all’interno della violenza più pura e gratuita, il tutto condito con tantissimo e malsano erotismo ma, nonostante i temi trattati, i suoi film risultano sempre lucidi, chiari e in ogni scena (anche la più cruda di tutte) è tutto giustificato e fatto per un “fine migliore”.

Inizia a scrivere soggetti e sceneggiature ad appena 28 anni e approda ad un tipo di produzione indipendente a basso costo.

Dopo Three Bewildered People in the Night del 1987 e The Long Weekend (O’Despair) del 1989, arriva alla prima piccola produzione cinematografica con The Living End del 1992. Un geniale road movie, con protagonisti due giovani adolescenti gay, uno sieropositivo e in fuga da se stesso, l’altro, ai margini, nichilista e totalmente privo di moralità.

La sua fama nella Los Angeles gay/lesbica comincia a crescere con la produzione seguente, Totally Fucked Up, film che incentra un taglio documentaristico sulle vicende di sei personaggi omosessuali nella loro vita quitidiana.

Grazie ai successi ottenuti dai primi film, il budget messo a sua disposizione aumenta sempre più, e gli permetti di realizzare quello che è considerato tutt’oggi uno dei film più rappresentativi per una generazione, Doom Generation, del 1995.

La pellicola mostra a caratteri cubitali l’incubo visionario di 3 adolescenti attraverso un altro road movie, intriso di sangue morte e terrore. Shockante è l’accostamento fra la furia omicida dei ragazzi e i torbidi intrecci sessuali, accompagnati dalla costante vena di nichilismo dei personaggi, spesso presente nella filmografia di Araki.

Ancora più visionario anche se meno macabro e brutale è il successivo Ecstasy Generation del 1997, accompagnato da una splendida colonna sonora. Opera innovativa condita, come sempre, di sesso controverso, furia violenta e allucinazioni extra sensoriali.

Nel 1999 è la volta di Splendor e questa volta Araki realizza una pellicola totalmente priva di violenza brutale, nichilismo e odio, dimostrando di essere poliedrico e attento ad una ricerca del bello.

Si consolida  livello mondiale nel 2004 con Mysterious Skin,difficile resoconto di una storia di vita vissuta e in un certo senso stroncata dalla piaga della pedofilia, subita dai due giovani protagonisti durante l’infanzia. E’ il  film più serio realistico dell’autore nippo-americano.

Nel 2007 dirige Smiley Faces, che si rivela essere un film completamente diverso dai precedenti, privo di ogni qualsivoglia segno di violenza, furia omicida o torbidi accostamenti sessuali. Incentrandosi totalmente su un prodotto di commedia, mantenendo sempre uno stile univoco e originale.

Nel 2010 torna alla sua produzione originaria e dirige Kaboom: un film da vedere ed impossibile da raccontare. Sesso spinto, battute al vetriolo, atmosfere cyberpunk, visioni lisergiche, omaggi ai supereroi dei fumetti, citazioni lynchane, satira dei teen-movies e l’immancabile erotismo che contraddistingue tutta la sua filmografia, sono alcuni degli ingredienti del film di Araki, che torna alle origini anni luce dal sofferto e bellissimo Mysterious Skin.

Oggi ha concluso la lavorazione del suo nuovo film intitolato White bird in a blizzard.

La pellicola è una storia di formazione, con protagonista una diciassettenne di provincia che alla prematura scomparsa della madre, si ritrova da sola con un padre quasi assente.

Opera, come spiegato dal suo autore, ispirata a David Lynch. Qualche anno fa Araki dichiarava di essere un grande ammiratore d Lynch e di volersi ispirare ad opere altrettanto originali e libere come le sue. Questa sua nuova fatica è l’omaggio del regista al grande maestro dell’onirico.

Attualmente il film è in fase di post-produzione, e si vocifera di una sua anteprima al prossimo Festival di Cannes.

Tutto questo signori è Gregg Araki: un autore che negli anni ha consolidato uno stile personalissimo, un linguaggio riconoscibile, però mutante ad ogni film.

Forse il regista che meglio sa dare vita a un immaginario adolescenziale sempre sull’orlo dell’abisso, in tutte le sue sfumature, tingendo di satira la rappresentazione di ragazzi smarriti ma non domati, veri e propri surfer del caos, dividendosi tra la profonda malinconia e la comicità surreale quasi slapstick.

 

FABIO BUCCOLINI

Quentin Tarantino cancella The Hateful Eight e si concentra su un nuovo progetto

Delusione per i fan di Quentin Tarantino: il regista ha cancellato The Hateful Eight, che avrebbe dovuto essere il suo prossimo film.

Tarantino

Tarantino è davvero furioso e al sito Deadline.com ha espresso tutto il suo disappunto per come un agente avrebbe divulgato ai colleghi la sceneggiatura top secret di The Hateful Eight, che da tempo veniva indicato come il prossimo film del regista di Pulp Fiction.

“Ho consegnato la sceneggiatura del film solo a sei persone. Tra queste, il produttore Reggie Hudlin e tre attori: Tim Roth, Michael Madsen e Bruce Dern – ha spiegato Tarantino al sito –. Uno di questi attori ha girato la sceneggiatura al proprio agente e questi deve averla mostrata ai suoi colleghi. Sono stato tempestato di telefonate di agenti che cercavano di piazzare i loro attori. Ma come diavolo lavorano questi agenti? Lavoravo da un anno a questa sceneggiatura, adesso ho deciso di cancellare il film: probabilmente pubblicherò lo script, anzi, ho già preso contatto con degli editori”.

In precedenza erano trapelate voci circa la possibilità che il ruolo principale dovesse andare a Christoph Waltz, che però non risulta tra i “destinatari” della sceneggiatura. Tra costoro, Tarantino avrebbe già individuato i possibili colpevoli di… spionaggio cinematografico. Sempre a Deadline.com infatti, ha spiegato: “Tim Roth è uno che non fa di queste cose. Quindi deve essere stato Bruce Dern, oppure Michael Madsen”.

A rigor del vero, bisogna ammettere che gli agenti degli attori hanno ammesso che possa esserci stato qualche disguido, legato alla mancanza di “watermark” sulle copie della sceneggiatura del regista di Django Unchained, e che magari qualche assistente, all’insaputa degli agenti stessi, possa aver combinato un pasticcio senza immaginarne le conseguenze. Sarà vero o il solito scaricabarile?

Quentin sembra già sapere quale sarà il progetto che prenderà il posto di The Hateful Eight: “L’idea era di scrivere due sceneggiature. Non avrei girato il western fino al prossimo inverno perché non vedo l’ora di realizzare l’altro. Così ho deciso di concentrarmi su quello”.

FABIO BUCCOLINI

Il cinema del diavolo, la carriera “dell’esorcista” William Friedkin.

A quarant’anni dal film che cambiò la storia dell’horror, il regista 78enne non ha per niente voglia di andare in pensione e resta un punto di riferimento per molti cineasti odierni. Una carriera ancora oggi attivissima. Figlio di disagiati immigrati russi a Chicago, il regista diventò un innovatore di generi cinematografici. Autore di commedie, musical, polizieschi e horror, ha lavorato per il cinema, la tv, il teatro, dirigendo anche opere liriche e documentari.

William Friedkin

“Tante persone, nel corso dei secoli, hanno parlato e parlano con Dio, ma prima “dell’Esorcista” poche ammettevano di conversare con il Diavolo, ride Friedkin”.

Friedkin è un autore che ha saputo rivoluzionare due generi popolari come l’horror e il poliziesco, prendendo poi la strada impervia del cinema indipendente. Egli rappresenta ancora oggi l’esempio di un cinema esigente, intellettualmente onesto, emotivamente intenso e programmaticamente avventuroso.

Se non bastasse, Friedkin è sposato con una della più potenti donne dell’industria cinematografica Usa, Sharry Lansing. Insomma, un uomo che ha attraversato la storia degli ultimi cinquant’anni del cinema americano. «E ho sempre creduto anche alla tv, strumento fatto di arte e business, come il cinema», dice.

Legato a tutti i suoi film (di grande successo o no) Friedkin ama ricordare alcuni suoi titoli, da “Vivere e morire a Los Angeles” (“il mio più interessante poliziesco”) a “Cruising” con Al Pacino, che affrontò in maniera diretta il tema dell’omosessualità.

Il suo miglior film, nonstante siano passati quasi 41 anni, resta sempre “L’esorcista”.

“Non so se questo film abbia cambiato i parametri del cinema dell’orrore – racconta -, ma di sicuro resta uno dei miei lavori più noti”.

Il film, ad oggi, è classificato uno dei film più inquietanti di sempre.

Friedkin era restio a dare lo stesso titolo alla pellicola eguale a quello del libro di William Peter Blatty, autore anche della sceneggiatura: sapevo che sarebbe intervenuta, come poi avvenne, la censura anche perché nella vicenda narrata il demonio si impossessa di una minorenne. Ma decisi di dirigerlo sebbene fossi reduce dal successo del “Il braccio violento della legge”.

Durante le riprese si ripeteva la frase di una epistola: “La Fede è la sostanza delle speranze umane, l’evidenza di cose che non vediamo”. Lo affascinava la personalità di Blatty, che aveva profonde radici religiose ed era figlio di libanesi immigrati a New York.

Un film che fece scandalo, come spiega nel libro di memorie “Friedkin connection”: “ho sempre ignorato le polemiche, perfino sull’uso di un crocefisso di metallo. Le menti disturbate sono al centro della storia e il confine tra normale e anormale è la linea di suspense del film. Credo che il suo successo sia dovuto al grande lavoro di ricerca e di documentazione. Ogni sequenza è frutto di tante letture del Nuovo Testamento e di tanti incontri con esperti religiosi. La trascendenza, anche in tempi di rivoluzioni digitali come quello che stiamo vivendo, è materia prima del nostro viaggio terreno”.

“Gli spettatori – dice – continuano a prendere dal film quello che serve loro: quasi come personale esorcismo da un mondo buio, dove le regole di Satana sembrano talvolta applicate. Gli esseri umani hanno perennemente il bisogno di liberarsi da qualche cosa”.

Un film che ancora oggi terrorizza ed ha cambiato le regole del cinema horror contemporaneo.

FABIO BUCCOLINI

Neil Jordan in pompa magna, dividendosi tra televisione e cinema

Il regista premio oscar dopo anni di assenza torna alla ribalta con I Borgia e Byzantinum.

Byzantium

 

Regista e sceneggiatore di culto per le generazione attuali ha diretto grandi attori in enormi produzioni internazionali, sperimentando quasi tutti i generi, senza mai fermarsi davanti ha veti o censure imposte dalle mejor.

Inizia la sua carriera in Irlanda come scrittore, poi con il passare degli anni decide di dare vita alla sua più grande passione, la regia cinematografica.

Gira il suo primo film autofinaziandosi, dove scrive dirige e monta la sua pellicola. Il lungometraggio risale al 1982 ed è intitolato Angel, interpretato dal suo grandissimo amico Stephen Rea.

Nel corso degli anni, ha vinto un oscar (miglior sceneggiatura) per il film La moglie del soldato e un Leone d’oro al Festival di Venezia per aver raccontato la storia del rivoluzionario irlandese Michael Collins.

Inoltre ha fatto innamorare milioni di spettatori grazie alla storia “romantica” di un vampiro condannato all’immortalità dal suo creatore nel film Intervista col vampiro, interpretato da due grandissimi attori del calibro di Tom Cruise e Brad Pitt.

L’ultima sua apparizione in sala è datata 2005 con “Breakfast on pluto”. Da quel momento il silenzio totale.

Sono voluto rimanere nell’ombra – dice intervistato – perché non ho trovato una storia che mi sarebbe piaciuto raccontare.

Oggi, dopo otto anni, risorge dalle ceneri con due progetti.

Il primo è una grande produzione per la televisione incentrata sui “Borgia”, e il secondo è un ritorno nelle sale grazie a “Byzantinum”, nuova storia incentrata sul mondo vampiriresco.

Con i Borgia ha affrontato uno dei papati più controversi del cattolicesimo italiano. Interpretato da un grande cast dove si innalza su tutti un grandissimo ed immenso Jeremy Irons, non si è fatto mancare niente: dalle minacce di chiusura del set (per scene troppo esplicite) alla censura.

Se dovevo censurare il mio progetto – dice – avrei preferito chiudere la baracca, ma alla fine vedendomi cosi sicuro e ferreo nelle mie decisioni, la produzione si è arresa e mi ha lasciato carta bianca.

Con Byzantinum a ripreso una pièce teatrale di Moira Buffini (A Vampire Story), autrice anche della sceneggiatura insieme al regista.

Il lungometraggio è interpretato da Saoirse Ronan (Amabili resti) e Gemma Arterton (Hansel & Gretel – Cacciatori di streghe).

La trama è molto particolare:  Eleanor e Clara sono due giovani donne che dopo essere fuggite dalla scena di un violento crimine si rifugiano in una località costiera, trovando riparo in un motel fatiscente, il Byzantinum. Li per guadagnare un po’ di denaro Clara inizia a prostituirsi e, sempre proiettata verso il futuro, lo trasforma in un bordello.

Nel frattempo Eleanor conosce Frank, uno spirito affine al suo che spinge involontariamente la ragazza a rivelare il suo più intimo segreto: nonostante lei e Clara sembrino coetanee sono in realtà madre e figlia, vissute nei primi anni dell’ottocento e discendenti di una stirpe di vampiri che per sopravvivere hanno bisogno di bere sangue umano.

Nella città in cui si sono rifugiate le ragazze comincia anche una serie di misteriosi omicidi e le due dovranno confrontarsi con il loro passato da cui cercano di fuggire già da molto tempo.

Presentato al Toronto film festival nel 2012 il film era atteso nelle sale nel corso del 2013, ma, in Italia, non lo vedremo prima della prossima primavera.

Alla domanda cosa dobbiamo aspettarci dai nuovi vampiri di Byzantinum, il regista risponde: “sarà la versione al femminile di “Intervista col vampiro”. In fondo in quel film Tom Cruise era il vampiro mamma di Brad Pitt, in questo ho una madre e una figlia che rimettono in scena quelle stesse dinamiche”.

Con queste premesse sicuramente Neil Jordan non deluderà le aspettative dei suoi fan e, in un periodo dove a parte pellicole esclusivamente commerciali ci resta ben poco da vedere, ci regalerà due indubbi momenti di grande cinema d’autore.

 

FABIO BUCCOLINI