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I film dimenticati. “3 from hell” il ritorno alle origini di Rob Zombie

A 15 anni da “La casa del diavolo”, il regista riporta sullo schermo i personaggi di Sid Haig, Bill Moseley e Sheri Moon. Sarebbe stato meglio lasciar riposare la famiglia Firefly?

3 from hell poster

Dopo il remake di “Halloween”, la sua personale visione della stregoneria nel tanto chiacchierato “Le streghe di Salem”, un piccolo horror indipendente come “31”, Zombie torna alle origini e rimette mano a quei personaggi che agli inizi gli hanno regalato la fama come uno dei migliori registi di genere degli ultimi anni.
Sono passati 15 anni da quando abbiamo assistito alla “chiusura” delle vicende dei rinnegati e sanguinari membri della famiglia Firefly, crivellati di colpi nella sequenza finale di “La casa del diavolo”. Un fermo immagine accompagnato dalle note di Free Bird dei Lynyrd Skynyrd era il requiem definitivo per questo branco di bastardi. Tale epico finale portava a un degno compimento il dittico scritto e diretto da Rob Zombie iniziato nel 2003 con “La casa dei 1000 corpi”. Non ci sarebbe stato nulla da aggiungere; e la domanda che sorge spontanea è se si sentisse veramente il bisogno di resuscitare questi demoni perfettamente dormienti.
Il grande amore che il regista prova verso queste sue creature penalizza purtroppo il film: vedendo la pellicola si ha l’impressione che dietro non ci sia stata una vera idea o necessità di raccontare qualcosa di nuovo, ma che semplicemente si stia assistendo ad una rimpatriata fra vecchi amici. Il regista ci aveva abituati a film più memorabili. Ricordiamo infatti il suo inizio folgorante con le prime due opere (“La casa dei 1000 corpi” e “La casa del diavolo”) dove aveva rispolverato con stile le atmosfere di Non aprite quella porta e altri horror degli anni ’80.
In seguito aveva messo mano su “Halloween” con due film grandiosi. Ha sorpreso tutti realizzando la sua pellicola più ambiziosa, “Le streghe di Salem”. Per un certo verso quest’opera può essere considerata la più interessante di Zombie. Nonostante non sia un film molto riuscito, è senz’altro il più originale e stimolante.

3 from hell

Beh, c’è da dirlo. La famiglia Firefly torna alla grande. E, senza avere grandi piani e narrazioni, spera di fare fondamentalmente quanta più mattanza si possa permettere. Complice un montaggio da vero cineasta (vedere ad esempio l’episodio nella casa del direttore della prigione), “The Three From Hell” riprende degnamente il mano la sostanza che aveva caratterizzato “The Devil’s Rejects” e ne riprende anche le tonalità migliori ed entusiasmanti. Sheri Moon è al top della forma: bellissima, sensuale, sempre più matta, sempre più tatuata e sempre più assetata di sangue. Bill Moseley e Richard Brake e reggono il gioco e fanno il loro. Sid Haig riesce, nei pochi minuti in cui è presente nel film, a regalare uno dei monologhi più riusciti della filmografia zombiana. Insieme ad una colonna sonora sempre azzeccata e adatta alle nuove peregrinazioni dei tre, Zombie ci regala un opera all’altezza delle aspettative, riuscendo a fare un grande lavoro sia per i fan sia per i critici, che apprezzeranno le diverse modalità e generi con cui il film si presenta.
Ma nonostante tutto, questa pellicola è riuscita solamente in parte, quando si prosegue nella visione c’è sempre un pensiero fisso che avvolge completamente lo spettatore: la sensazione che qualcosa in Rob Zombie ultimamente si sia inceppato. Prima con “31”ed infine con questo “3 From Hell”, sembra che il cinema per lui sia diventato più un passatempo che un mezzo per raccontare qualcosa.
La speranza è che Rob riesca a siglare nuovamente un longevo patto con il diavolo, altrimenti difficilmente riuscirà a ottenere indietro l’ispirazione perduta.

FABIO BUCCOLINI

“IL SIGNOR DIAVOLO” IL RITORNO ALLE ORIGINI DI PUPI AVATI

Dopo alcune pellicole non troppo degne di nota, Pupi Avati torna in sala con una storia basata su un suo romanzo che sa tanto di un ritorno alle origini della sua carriera.

Il signor diavolo

Il ritorno all’horror padano giova a Pupi Avati; “Il signor diavolo” è lavoro ben riuscito grazie alle cupe atmosfere e all’analisi del potere del Male, della superstizione e della religione bigotta degli Anni ’50 nel cattolicissimo Veneto.
Esiste una certa aura mitologica intorno agli horror di Pupi Avati. Con “La casa dalle finestre che ridono” in testa, la modesta pattuglia di film realizzati tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80 ha generato un culto alimentato anche dal contrasto con quella che è stata la filmografia di Avati da lì in poi.
“Il Signor Diavolo” è un film che entra completamente nell’ottica del “classico” horror all’italiana, genere che in realtà non ha più rappresentanti da un bel pezzo, che è fiorito principalmente nello scorso decennio per mano di cineasti ormai molto anziani come Dario Argento e Lucio Fulci.
Si tratta di una pellicola che non può piacere a tutti gli amanti attuali del genere horror, ma che incontra sicuramente i gusti di chi apprezza appunto le particolarità tecniche che il genere ha da sempre: in particolare, se si ama un certo modo di usare la macchina da presa, una certa fotografia ed una certa gestione della narrazione si potrà godere immensamente di un film che dal punto di vista tecnico è semplicemente perfetto, in cui l’ambientazione tetra e le inquadrature fanno da soli gran parte del lavoro.
“Il signor diavolo” ha come pregio principale, prima di ogni valutazione narrativa, quello di un’ambientazione bellissima, cupa, adagiata lungo la laguna livida e calma che è quella di Comacchio per larga parte, ma traslata narrativamente un po’ più a nord a Venezia.
Il risultato è un film cupo, in certi tratti addirittura pessimista, che fotografa ed analizza come l’irrazionale, le paure, la malvagità e la costante ricerca dell’uomo di potere di toccare con mano il potere satanico diventino gli strumenti con cui l’oscurantismo e il potere della religione si impadroniscano dell’essere umano.

 

FABIO BUCCOLINI

I film ritrovati. “31” il nuovo incubo slasher di Rob Zombie

Dopo qualche anno di pausa dalla sua creazione più intimista “Le streghe di Salem”, il regista/cantante torna alla carica con una pellicola visionaria e super violenta dove tutto è lecito e niente scontato.
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Forse ascoltando l’istinto del musicista e forse cercando una via di fuga da quel ruolo poco gradito, Zombie ha architettato la propria rinascita seguendo le regole non scritte dei ritorni discografici: una pausa di riflessione lunga tre anni e il riaffacciarsi sulle scene con un’opera minimale che lo riporta alle origini. Il regista è uno che è sempre stato abituato a lottare per la propria creatività, fin da quel “La casa dei 1000 corpi”, massacrato dalle forbici pre-censura della Lionsgate. Gli è andata meglio in seguito per gli “Halloween” e con “Le streghe di Salem” si è potuto prendere (quasi) tutta l’autonomia che ha voluto. Da allora Rob Zombie è diventato come Lars Von Trier a Cannes: “regista non grato” e così l’idea geniale: tirare sui i soldi necessari col crowdfunding e girare un film senza dovere rendere conto a nessuno. Neanche agli investitori…così nasce “31”.
La trama è semplice e ridotta all’osso: “È la notte del 31 ottobre 1976. Un gruppo di giostrai ambulanti viene rapito nelle lande desolate del Texas. I rapitori sono dei potenti e ricchi signori, membri di un’associazione, che coinvolgono i malcapitati in un gioco di terrore, morte e sopravvivenza”.
Zombie volge lo sguardo indietro non solo al passato della sua carriera da regista, ma a quello del cinema horror più in generale, fuggendo come sempre dalle mode contemporanee realizzando uno slasher crudo e carnale, che affonda le sue radici nel mondo di Tobe Hooper.
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Costruendo con pochi sforzi questo contesto Zombie ha gioco facile per attingere a piene mani a quell’immaginario creato negli anni e recuperare idee di seconda mano, ma ad oggi ancora efficaci. Assistiamo così all’ennesimo carnevale macabro robzombesco a base di freak assassini: nani nazisti, clown sanguinari, ricconi travestiti e, soprattutto, persone comuni trasfigurate in carnefici dall’istinto di sopravvivenza. Non mancano le efferatezze, anzi si trovano dietro ogni angolo, ma per la maggior parte del tempo, e la prima volta in un film del regista, non si percepisce un senso di questa violenza che non sia meramente ludico.
Non si tratta della faccia di Doom Head, che non vediamo l’ora di rivedere in azione, ma di quella di Rob Zombie, uscito dalla crisalide in cui si era infilato a Salem in una forma inattesa: più furbo che efferato, più attento alla maschera che al volto che nasconde, più interessato alla confezione che ai mille particolari che ogni buon demiurgo dissemina nei mondi che crea.
Il film riesce ad arrivare sul grande schermo e, come succede spesso, spacca la critica in due. Zombie è riuscito nell’intento di creare personaggi malvagi che catturino il pubblico. Situazione già vista con il personaggio di Captain Spaulding. Questa volta tocca a Doom Head, interpretato da Richard Brake che lo ha reso un personaggio angosciante, spietato ed estremo.
Grazie al suo tocco personale Zombie crea delle vere e proprie opere d’arte su pellicola, amalgamando alla perfezione i personaggi con lo scenario che racconta. Il tutto è sostenuto da una colonna sonora che riprende grandi classici della musica mai dimenticati.
“31” non è un film per tutti. Gli amanti del genere apprezzeranno i dettagli e i ricordi al cinema del passato che fanno ancora battere il cuore. Sicuramente in un’industria dove negli ultimi tempi gareggiano remake su remake, questo film è una perla per gli occhi.
Rob, continua così!!!

FABIO BUCCOLINI

I film ritrovati. “It follows” il tanto acclamato horror americano finalmente in Italia

Nuovo appuntamento con la rubrica “I film ritrovati”, questa volta vi parlerò di “It follows” horror americano datato 2014. Alla sua uscita suscitò un putiferio. Approvazioni a destra e a manca, critici entusiasti e addirittura è stato classificato uno degli horror migliori del nuovo millennio. Niente di più sbagliato, classico b-movie scontato.

It follows

Il bello del cinema realizzato con pochi fondi è che gli autori devono sforzarsi se vogliono realizzare qualcosa di buono. Ma questo non è il caso di “It Follows”. Ci sono tutti gli elementi per realizzare veramente un buon film: l’incidere lento del tempo, il silenzio e l’assoluta mancanza di scopo nella violenza, in pratica si ritorna al passato; a quegli anni ottanta dove questi temi hanno fatto la fortuna dell’horror e consacrato dei personaggi (Jason, Freddy) a vere e proprie icone. Ma il talentuoso regista rovina tutto. Tecnicamente gira veramente un’ottima pellicola ma per quanto riguarda il resto, “It follow” è scontato, ridondante di luoghi comuni e insulso. Niente di più di un horror estivo di cui non si sentiva la mancanza e che deve la sua fortuna solamente ad una gigantesca pubblicità ingannevole volta solo a convincere lo spettatore che quello che sta guardano è un capolavoro indiscusso della cinematografia. Il classico caso in cui i mass media ci dicono una cosa e per noi comuni mortali è giusta a prescindere.
Questa la trama: Jay ( la brava Maika Monroe ) diciannovenne sguazza vivendo la sua giovinezza. Ma la tranquillità, ovviamente, svanisce subito. Una serata di passione si tramuta in orrore quando il ragazzo col quale ha appena fatto sesso la sequestra. Lui le confessa che con l’atto sessuale le ha passato una sorta di “maledizione”: d’ora in poi qualcosa la seguirà e può avere le sembianze di chiunque, conosciuto o non. Colui che la insegue sarà “lento ma non stupido” e se la raggiunge la uccide. Ora Jay deve affrontare questa maledizione, ad aiutarla ci saranno i suoi giovani amici.

It follows scena
Teen movie che strizza gli occhi ai film dello stesso tipo, “It follows” descrive continue fughe da fermi di questi ragazzi. L’entità da cui non si può fuggire non è altro che la metafora del mondo in cui vivono. Ottimo incipt che si perde nel voler scavare troppo a fondo. Ci sono regole ben precise se si vuole omaggiare i temi tanto amati negli anni ottanta. Si deve cercare solamente di sopravvivere senza ma e senza se. Qui una grande quantità di psicologia spicciola confonde lo spettatore senza portarlo mai ad un fine. Si cerca di enfatizzare il fatto che i giovani sono lasciati a se stessi, i genitori sono sempre assenti e non si curano di loro ma non si può fare con una “cosa” che ti segue lentamente e se tu prendi la macchina e scappi ci mette giorni per trovarti…Ma scherziamo? Se Freddy Krueger vedesse una cosa del genere ritornerebbe nei nostri sogni per farci capire veramente cosa significa non avere scampo. Quella era una realtà claustrofobica in cui nessuno sogna nemmeno più di andare via.
Quello che mi fa più scalpore è che il regista David Robert Mitchell è uno bravo, e lo aveva già dimostrato abbondantemente con “The myth of the american sleepove”. Aveva già dimostrato di saper raccontare la giovinezza, le incertezze, l’intimità, la sessualità. Qui fa vedere pure di aver studiato, citando il Carpenter più paranoide de La cosa e del Signore del Male, senza mai compromettere il suo stile personale caratterizzato da una densità liquida, da una morbidezza acquatica e ipnotica ripresa nelle piscine, nei getti d’acqua e nelle acque lacustri che costellano il film e ne segnano i momenti principali, dall’inizio alla fine. Ma toppa alla grande, confeziona un film scialbo e scontato in cui cerca di entrare troppo nel profondo ma non ha la capacità di gestire fino in fondo le reazioni psicologiche ed emotive dei personaggi. In pratica voto 10 per la messa in scena ma 2 per il resto.
Volete un consiglio? Evitatelo…evitatelo finché potete, altrimenti lentamente ed inesorabilmente vi inseguirà per il resto della vostra vita.
Un attesa di 2 anni buttata al vento.

FABIO BUCCOLINI

I film ritrovati. “Piranha 3DD” trash allo stato puro

Dopo tre anni di “attesa”, è uscito in Italia il sequel di “Piranha 3D” di Alexandre Aja datato 2011. Come di consueto in Italia, niente sala cinematografica, si passa direttamente per l’home video…anzi in prima assoluta su Sky e poi distribuito in DvD e Blu-Ray.
Piranha 3DD cover 2
Tanto sanguinolenta quanto divertente operazione tridimensionale che, in un’epoca caratterizzata da una Settima arte sempre più povera di idee originali e in preda al continuo recupero di soggetti già trasformati in film, non poteva fare a meno di generare questo secondo episodio, non più diretto da Aja, ma dal John Gulager, il responsabile dei tre Feast.
Ecco la trama, se si può chiamare tale: “L’apertura di un nuovo e spettacolare parco acquatico diviene motivo di attrazione per i giovani di una tranquilla cittadina americana. Tra alti scivoli da cui lanciarsi e grandi piscine in cui sollazzarsi, i ragazzi vedranno trasformarsi il divertimento in incubo quando, attraverso le condutture idriche, un gruppo di piranha dai denti affilati come lame infesterà le acque del posto, uccidendo con attacchi rapidi e brutali chiunque capiti sotto tiro, con le autorità locali incapaci di fermarli e con la studiosa Maddy, insieme agli amici Kyle e Barry, intenta a trovare una soluzione per porre fine ai famelici attacchi”.
Piranha 3DD
Il cinema di John Gulager è puro cinema d’avanzi, proprio come recita il secondo capitolo della trilogia di “Feast”, appunto “Sloppy Seconds”. Ricicla, impasta, rifrigge gli ingredienti dei suoi film precedenti e, in questo caso del remake a cura di Alexandre Aja, e come nel menù di mezzogiorno di qualsivoglia ostaria/trattoria che si rispetti propone una “pasta pasticciata” che potrà risultare indigesta per alcuni e saporita per altri.
E il cast? Se non fosse per David Hasselhoff, che nel ruolo di se stesso qualche sorriso riesce a strapparlo, e per la piccola ma fulminante apparizione di Christopher Lloyd (quando un attore ha classe!) non sarebbe neanche il caso di parlarne. Persino Ving Rhames, che ci propone un bruttissimo omaggio a Planet Terror, riesce ad uscirne sconfitto, adattandosi perfettamente all’atmosfera di questa pellicola, che altro non è se non la pallida copia dell’originale.
Piranha 3DD ha in se la follia della parodia più truce che cerca di allontanarsi dalla seriosità del suo predecessore che al contrario si prendeva un po’ troppo sul serio, ma nel farlo eccede in senso opposto finendo per peccare di una compiaciuta idiozia nel senso più comico e delirante del termine, allontanandosi così anni luce dal suo predecessore, ma anche dall’originale di Joe Dante, prestandosi così ad una veloce e più consona fruizione casalinga.

FABIO BUCCOLINI

I film ritrovati. “Babadook” acclamato come capolavoro…ma scherziamo?

Molto spesso la pubblicità è ingannevole. Questo film ne è un esempio. Uscito in piena estate, è stato pubblicizzato come il miglior horror dell’anno paragonato a capolavori della cinematografia dell’orrore. Niente di più vero.
Babadook
Il progetto dell’australiana Jennifer Kent parte da un suo corto, “Monster”, del 2005. Trovati i fondi per produrre una pellicola vera e propria, imbastisce questo “Babadook”.Chiariamoci, non tutto è da buttare; l’idea di base è abbastanza curiosa o almeno voleva presentare il tema delle possessioni unita alla classica storia dell’uomo nero in maniera diversa dal solito.
Ecco a voi un accenno di trama: “Sei anni dopo la morte violenta del marito, Amelia è ancora in lutto. Lotta per dare un’educazione al figlio ribelle di 6 anni, Samuel, un figlio che non riesce proprio ad amare. I sogni di Samuel sono tormentati da un mostro che crede sia venuto per ucciderli entrambi. Quando l’inquietante libro di fiabe Babadook arriva in casa, Samuel è convinto che il Babadook sia la creatura che ha sempre sognato. Le sue allucinazioni diventano incontrollabili e il bambino sempre più imprevedibile e violento. Amelia, seriamente spaventata dal comportamento del figlio, è costretta a fargli assumere dei farmaci. Ma quando Amelia comincia a percepire una presenza sinistra intorno a lei, inizia ad insinuarsi nella sua mente il dubbio che la creatura su cui Samuel l’ha messa in guardia possa essere reale.
Babadook 2
Il film abbraccia una “filosofia più orientale”. Il legame madre-figlio e la paura di natura psicologica ricordano molto film come “The Ring” o “Dark Water”. L’opera è ricca di citazioni, lo stesso Babadook sembra ispirarsi ad alcuni classici del cinema espressionista come “L’uomo che ride” di Paul Leni.
Come tutte le pellicole orientali di rilievo in questo genere, “Babadook” cerca di creare terrore nello spettatore tramite il classico canone del “vedo non vedo” ma la tensione stenta ad arrivare. La pellicola parte dopo abbondanti 45 minuti, e tutta l’originalità e curiosità che aveva creato nei primi 5 si perde pian piano per strada arrivando ad un finale presso che scontato lasciando lo spettatore a chiedersi: ma perché? La curiosità di quest’ultimo non è data da un finale aperto che preannuncia un sequel ma a gravi carenze di sceneggiatura che mandano in confusione lo spettatore fino all’epica conclusione che si può classificare proprio come ridicola.
Una nota a favore dell’intero progetto è il sonoro davvero ben realizzato, con tanti scricchioli, rumori sinistri e porte che cigolano; l’unico senso di angoscia che suscita allo spettatore lo danno proprio questi elementi.
Se per l’aspetto horror il film non è affatto questo capolavoro che ci si aspettava, i tanti applausi della critica sono giustificati. Jennifer Kent scava a fondo nei tormenti della protagonista partendo da una mitologia ben radicata nell’immaginario horror e mostra come si potrebbe trovare la luce a patto di saper convivere con i propri demoni. Perché nonostante i nostri sforzi il male è parte integrante dell’animo umano, solo che non riusciamo a vederlo.
Molti film in Italia non arrivano e questo poteva tranquillamente restare reperibile solo tramite il “mercato” underground. C’erano e ci sono opere che, più di questa, avrebbero meritato il buio della sala.
Vi lascio con un quesito…secondo voi, ne avevamo veramente bisogno???

FABIO BUCCOLINI

“The green inferno” nessun grande scandalo ma un grande Eli Roth

Aberrante, feroce, estremo…una pubblicità che gridava allo scandalo. Perfino la censura si è messa in mezzo urlando a grande voce il divieto ai minori di 18 anni. Come al solito tutto fumo e niente arrosto. Si, il film di Roth è veramente feroce, il divieto a 18 anni se pur discutibile, è giustificato ma rimane, alla vista, il classico horror truculento.
the green inferno
Feroce, aberrante, efferato, estremo, inaccettabile, crudele. La campagna promozionale di The Green Inferno prospettava un film ben oltre l’immaginabile, ben oltre quanto avevamo già visto al cinema e non solo nei cannibal movie. Invece, di feroce, aberrante, efferato, estremo, inaccettabile e crudele non c’è poi così tanto. Il nuovo film di Eli Roth va preso per quello che è: un omaggio al filone cannibalico degli anni Settanta e Ottanta.
TGI
Dopo il selvaggio turismo sessuale e il consumistico delirio capitalista criticati nella trama da incubo di Hostel, il regista Eli Roth ha deciso in questo film di lasciare spazio agli ideali che nobilitano l’animo umano. Infatti in The Green Inferno vediamo dei giovani studenti degli Stati Uniti impegnarsi nella nobile causa di salvare la foresta amazzonica la sua popolazione dal rischio della distruzione da parte di multinazionali decise a tutto in nome del consumismo capitalista. Questi ragazzi, convinti ecologisti capiranno a loro spese di essere stati soggiogati da un vero e proprio farabutto che si proclamava loro leader. La tematica affrontata consente al regista di ribaltare diverse situazioni in modo tale da arrivare ad un epilogo crudele che vedrà questi studenti amici degli indigeni finire tra le grinfie di una tribù di cannibali.
The green inferno
Se avete lo stomaco debole e non riuscite a sopportare violenza e sangue, astenetevi dalla visione di questa pellicola. “The Green Inferno” è infatti un gore movie in piena regola, crudo e violento che omaggia quel cinema italiano (“Cannibal holocaust” su tutti) che nei lontani anni 70 e 80 avevano creato parecchio scandalo. Ora siamo abituati ad essere bombardati da immagini violente, il sangue scorre nei nostri telegiornali, eppure un film come questo ancora riesce a turbare.
The Green Inferno” conduce lo spettatore ad assistere ai dettagli più truculenti delle torture e della conservazione sotto sale e affumicatura della carne umana, ma ci mette a nudo anche le varie anime di Roth, prima tra tutte quella documentaristica. La sensazione che si ha, infatti, è di essere davanti ad un film diverso dai suoi soliti, che vuole non solo raccontare, ma anche mostrare le bellezze selvagge del Perù.
La cosa più sorprendente e indiscutibile è che il regista rimane agganciato alla realtà contemporanea e ai problemi che la attanagliano, lasciando da parte figure orrorifiche tradizionali quali mostri, serial killer e demoni.
Eli Roth continua a dirci chiaramente che il vero orrore non è al cinema ma nella realtà di tutti i giorni.
Attendete la fine dei titoli di coda per alzarvi…ne rimarrete sbalorditi!!!

FABIO BUCCOLINI

“Liberaci dal male” tutto già visto…ma stupisce

Dopo i vari esorcisti e Emily Rose, torna al cinema un film demoniaco che non si distingue dalla massa ma riesce ad impressionare lo spettatore.

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Non ci sono dubbi che il genere demoniaco sia molto amato dal pubblico, infatti in questi ultimi anni c’è stato l’assalto di queste pellicole che in bene o in male vogliono parlarci di possessioni.
La metà di esse non riescono nemmeno ad essere guardabili, non esiste una storia che regga e soprattutto più che essere un resoconto sulla forza del maligno giocano la carta dello splatter e fanno a gara per quale di esse sia la più “esagerata”.
Fortunatamente tra queste opere si distinguono quelle del regista Scott Derrickson che negli anni passati ci a già mostrato la sua grande potenzialità con piccoli capolavori come The exorcism of Emily Rose. Ovviamente il film che ho appena citato non può essere preso come un vero e proprio racconto della vita della povera ragazza in questione, ma tra la finzione della pellicola il racconto è ben delineato e rispecchia ciò che è successo….ovviamente stiamo parlando di finzione cinematografica quindi molte cose sono state esageratamente ingrossate ed altre non raccontate ma nel complesso è un ottimo esempio di film horror riuscitissimo visto che negli ultimi anni se non si parla di torture porn non si tratta di pellicole dell’orrore.
Ma torniamo alla cosa di cui volevo parlarvi: Liberaci dal male.
Ovviamente è quasi inutile spiegarvi la trama. Vi posso solo dire di non ascoltare o leggere come viene presentata sui vari ciak o best movie perché, a leggere loro, è un thriller glaciale tipo Seven ma niente è più lontano dalla verità. Non c’è un serial killer…ma è un viaggio notturno nei territori del bronx dove “il male primario”, come viene citato nel film, viene sprigionato e il classico tenente della polizia, aiutato da un prete, cerca di fermarlo.
Quindi ci troviamo di fronte alla classica trama di film di genere.
Sentendomi parlare vi chiederete: cos’è che distingue questa pellicola da tante altre?
Quello che la distingue è soprattutto la fotografia e l’ambientazione. Girato quasi completamente di notte, non lascia niente al caso, tutto viene presentato come qualcosa di macabro ed anche una scena dove vengono mostrati 2 leoni, fa rabbrividire. La minuzia usata per i particolari è impressionante.
Le interpretazioni degli attori sono abbastanza trascurabili ma Eric Bana entra perfettamente nella parte senza mai caricar troppo il personaggio.
La cosa più particolare e più bella dell’intero progetto è la colonna sonora. Utilizzare la musica dei Doors come strumento usato dal demonio per poter oltrepassare la porta del nostro universo è fantastica.
Insomma per concludere posso solo dire che in quest’epoca dove i film horror hanno perso il loro valore, questa pellicola ci riporta ad un modo di fare cinema che negli anni si è perso e ridà un po’ di brio a questa categoria.
Sicuramente non rimarrà negli annali di cinema ma sicuramente, in un futuro, verrà rivalutato.
Vedetelo e non ne rimarrete delusi.

FABIO BUCCOLINI