Archivio mensile:febbraio 2014
Giuseppe Tornatore e il sogno di Leningrad
Uno dei più apprezzati artisti italiani annuncia: forse prenderà il via la produzione del film sull’assedio.
Per mesi è stato fra opere d’arte e aste per girare La migliore offerta, ma Giuseppe Tornatore non ha mai smesso di pensare alla Russia e alla sua ossessione che lo accompagna da anni: girare Leningrad.
Nessuno in questi anni a voluto mai scommettere su un film che racconta dell’assedio di Leningrado ma adesso sembra che un produttore americano sia favorevole a questa nuova avventura del nostro partenopeo.
Progetto a cui stava lavorando Sergio Leone al momento della morte e poi ripreso due volte, con altrettanti inceppi, da Tornatore a partire dal 2004.
Per entrambi la prima fonte è il libro I 900 giorni di Harrison Salisbury, pubblicato nel 1969 (e diffuso in Russia solo dopo la caduta del Muro), intenso reportage di quei giorni, dall’8 settembre 1941 al 27 gennaio 1944, in cui morirono di fame e di freddo 1 milione di leningradesi, circa metà della popolazione.
“Questa vicenda – racconta – è più che mai attuale, una grandiosa metafora della contemporaneità. L’intero pianeta oggi è un’immensa Leningrado assediata dal nemico, terrorismo, recessione, fondamentalismi, conflitti, e incapace di intravedere un futuro certo. Ma deve resistere”.
La lavorazione del film non sarà semplice, ci sono stati già accordi con il produttore Avi Lerner su come migliorare la sceneggiatura e renderlo più appetibile anche agli spettatori d’oltreoceano. Nonostante quello che si è scritto, il soggetto è totalmente di Tornatore, non è mai esistita una sceneggiatura di Leone.
Esistono solamente “due paginette” con l’incipit del film, un folle piano sequenza da fare tremare i polsi a qualsiasi regista: dal primo piano sulle mani di Dmitri Shostakovich intento a comporre la Settima sinfonia in pieno assedio, l’inquadratura, senza stacchi, si allarga alla strada, al movimento di volontari che salgono sui bus, raggiungono i soldati russi e le trincee alle porte di Leningrado, e da lì una panoramica aerea sulla steppa infinita arriva a inquadrare mille carri armati tedeschi.
Inizio magnifico, e quello che era un sogno megalomane al tempo di Leone oggi sta forse per essere realizzato.
Si dovrebbe girare nei dintorni di San Pietroburgo e negli studios di Lerner in Bulgaria.
La fine di questa mega produzione, stimata in 100 milioni di dollari non è ancora certa, ma una cosa è sicura: se Tornatore non riuscirà ad entrare in pre-produzione entro “poco tempo”, trasformerà la sceneggiatura (già pronta) in un libro e accantonerà per sempre questo progetto.
Aspettiamo e speriamo che tutto questo si realizzi.
FABIO BUCCOLINI
TULPA: IL NUOVO AGGHIACCIANTE HORROR DI FEDERICO ZAMPAGLIONE
Non è un segreto che Federico zampaglione si sia accollato il peso di far rinverdire il genere horror nel bel paese. Per farlo si ispira al grande maestro Dario Argento.
Il mio- dice Zampaglione – non è un horror, né un thriller. Questo è un giallo. Un’operazione nostalgica in cui la tensione è affidata alla soggettiva di un maniaco, di cui vediamo soltanto i guanti che operano contro le sue vittime.
L’horror – confessa – ha un unico tono, il giallo invece è pieno di atmosfere. Ha tanti elementi difficili da miscelare.
Il suo primo film horror , shadow, è un sentito omaggio alle pellicole del genere, che molti hanno acclamato come un capolavoro (a dire la verità altri lo hanno trovato pessimo).
Il regista ora ritorna alla carica con un nuovo progetto, quel Tulpa che, presentato al Freightfest di Londra, ha scatenato polemiche ben poche piacevoli, per la violenza e per le scene di sesso esplicito presenti nella pellicola.
Il cast è quello che fa di questo film “indipendente” un vero gioiello; nomi importanti come Claudia Gerini e Michele Placido, ne fanno parte.
Ma di cosa parla questo Tulpa?
Tulpa è il nome di un club privato, in cui la soddisfazione dei piaceri della carne, anche attraverso modalità che si definirebbero perverse, è l’unica legge. Lisa Boeri (Claudia Gerini) è una manager in carriera, nonché assidua frequentatrice del Tulpa. La donna si rende conto che tutti i partner incontrati al club finiscono puntualmente per essere massacrati in modi fantasiosi e, spinta dalla curiosità, decide di indagare per conto proprio, impossibilitata a rivolgersi alla polizia (rappresentata da Michele Placido) per paura che la sua doppia vita venga alla luce.
Chiarissimo omaggio ai film “horror-giallo” anni 70 dei maestri Dario Argento e Lucio Fulci, riuscirà a far resuscitare un genere ricercato da tanti ma che sta avendo un grande declino?
FABIO BUCCOLINI
Rob Zombie racconta Salem con la sua controversa opera sulle streghe dedicata a satana e ai sui accoliti
Che piaccia oppure no, Robert Bartleh Cummings (questo è il suo vero nome) è uno degli artisti di riferimento riguardo la cinematografia horror degli ultimi dieci anni. Cantante, compositore ed infine regista, ha conquistato il ben volere del pubblico circa venti anni fa, quando formò la band alternative metal “White zombie”, che poi sciolse per portare avanti la sua carriera solista.
La cosa più importante che possiamo dire è che Rob Zombie delle mode se ne frega.
Se ne frega da dieci anni, da quel 2003 in cui sganciò la bomba “La casa dei 1000 corpi”, oggetto radicale e fuori dal suo tempo che fece impallidire di colpo tutti gli increduli spettatori contemporanei (la pellicola era pronta dal 2001 ma per successivi due anni nessuno aveva il coraggio di distribuirla).
Se ne frega anche delle aspettative dei fan, visto che dopo quell’esordio fu la volta del diversissimo ma ancora più bello La casa del diavolo, western crepuscolare e struggente mascherato da horror.
Ottenne un successo di critica anche maggiore, contribuendo a far assurgere il buon Zombie al rango di nuovo vate del genere.
Poi fu la volta dei due remake della saga di Halloween, tuttavia, per quanto spingessero ancora di più sul pedale della personale rivisitazione di stilemi classici, delusero però un po’ tutti, sopratutto per quanto riguarda il cruento e inconcludente secondo episodio (non voluto dal regista ma costretto per motivi legati alla casa produttrice) che comunque non è privo di un fascino sopra la norma.
Ora, cambia ancora una volta radicalmente registro: e firma un horror satanico e psichedelico che ha il ritmo lento, ponderoso e solenne, e le sonorità acide, stridule e disturbanti del black metal.
Dopo una parentesi nel cinema d’animazione (The hunting world of el Superbesto) ecco arrivare in questi giorni l’atteso Le streghe di Salem, film prodotto in piena autonomia, con tutte le conseguenze positive (totale libertà di produzione e scrittura) e negative (budget di basso livello, un milione e mezzo di dollari) del caso.
Ancora una volta, e ben più del solito, gran parte del peso della pellicola ricade sulle spalle, e sul fondoschiena, più volte inquadrato in versione nature, della musa-moglie Sheri Moon.
Partendo da una storia, che è una delle più radicate vicende di folklore americano, il film si propaga ipnotico, raccontando una “witch-story” contemporanea trovando proprio nella musica il punto di congiunzione perfetto e perverso tra un passato e un presente diversissimi eppure uguali.
Il percorso della Heidi di Sheri Moon (perfetta nella parte), è reso travagliato da possessioni e dipendenze che superano quelle diaboliche, le quali assumono una valenza metaforica.
Questo racconto, pessimista, Rob Zombie lo mette in scena con modalità che ne confermano un coraggio quasi dissennato, una voglia di osare che si traduce nello spingersi oltre la soglia dell’atteso anche a costo di suonare una nota stonata.
L’autore ha ammesso apertamente che questa pellicola è un omaggio hai grandi registi del passato.
Nelle lunghi piani sequenza ritroviamo il Kubrick di Shining. Per quanto riguarda i movimenti di macchina e la realizzazione della storia è un grande omaggio hai maestri Polansky e Argento. Il più grande omaggio viene fatto al maestro dell’onirico David Lynch nella rappresentazione delle allucinazione che perseguitano la protagonista.
Zombie non copia né scimmiotta, né omaggia con maggiore o minore differenza, semplicemente si cala nello spirito di un cinema anni settanta catturandone con personalità l’essenza e la forza visionaria.
Procedendo con ritmo lento e ragionato, la pellicola osa sempre di più, libero da preconcetti e sovrastrutture, facendo sprofondare in un incubo malsano e angosciante lo spettatore.
Rob, che ha girato con due lire e in tutta fretta, non ha bisogno di abusare in effetti speciali per catturare e strizzare la mente di chi guarda, gli basta usare la forza del cinema e la sua capacità di stupire con poco.
E ancora una volta ci regala un film che se la ride dei deliri postmoderni e ipertecnologici che sbancano i botteghini di mezzo mondo, e li ridimensiona mettendoli all’angolo con un solo movimento di macchina o una sola, semplice e potente invenzione visiva.
Lungometraggio che sicuramente divide critica e pubblico. Sconsigliato a coloro che vogliono vedere il classico horror “giovanile” dove lo splatter comanda.
Horror vecchio stile e grande regista…..cosa c’è di meglio?????
FABIO BUCCOLINI
Se corri come un fulmine, ti schianti come un tuono!
Un mix di azione, noir e melò nel film interpretato dal divo di Drive, Ryan Gosling. Il titolo è appunto “Come un tuono” e riunisce la consolidata coppia Gosling-Cianfrance, attore e regista di “Blu Valentine”.
Derek Cianfrance, prodigio del nuovo cinema indipendente americano, racconta con questo noir intimista l’epopea di due famiglie.
Il film narra la storia di quattro uomini – e due generazioni – che lottano per aprirsi un’esistenza finalmente priva di violenze. Sempre che il destino gliene dia la possibilità.
Luke un pilota di motociclette insuperabile nel numero di uno spettacolo ambulante, che si tiene nelle strade secondarie di Schenectady, nello stato di New York. Decide di mollare tutto quando scopre che Romina, la sua ex ragazza, ha avuto un figlio da lui. Per cercare di far da padre a Jason e occuparsi di Romina, Luke commette una serie di rapine in banca affidandosi anche alle sue straordinarie doti di pilota (e fin qui la storia ricorda veramente molto quella di “Drive”).
La corsa di Luke subisce però una battuta d’arresto quando sulla sua strada spunta Avery Cross, anche lui padre da poco, e deciso a fare carriera in un dipartimento di polizia minato dalla corruzione.
Quindici anni dopo Jason e il figlio di Avery, AJ, si conoscono e fanno amicizia al liceo. Purtroppo il passato che li lega riaffiora e l’antica violenza dei padri si riaccende. L’unico posto dove rifugiarsi sembra quello che in lingua mohawk viene definito “Il posto oltre il bosco dei pini”.
Erano anni che non si vedeva una scena iniziale così affascinante. Il piano sequenza iniziale, senza tagli e ripreso con una camera a spalla, segue Gosling di spalle mentre si reca a fare il suo spettacolo. Rispecchia l’anima solitaria e in via di cambiamento del protagonista, sembra quasi l’inizio di una rinascita, come una fenice che risorge dalle ceneri. Ricorda vagamente lo stile registico di John Carpenter quando girò il capolavoro, che tutt’oggi è ancora nel cuore dei sui fan, intitolato Hallowen.
Da una partenza del genere uno inizia a credere che questo lungometraggio sia un film totalmente diverso da tutta quella poltiglia che oggi ci propinano nelle sale, ma ben presto tutto diventa troppo lungo, troppo prevedibile e troppo scritto.
Peccato, l’idea iniziale di costruire il percorso parallelo di due uomini alle prese con una paternità complicata e difficile da vivere fino in fondo, sembrava pressoché perfetta. Il talento del regista non tarda a farsi notare ma, forse per la pressione di girare un film meno indipendente e più legato ad una grande produzione, la sceneggiatura che lui stesso scrive regge per la prima mezzora e poi diventa tutta roba già vista e rivista.
L’autore rimane ingabbiato proprio nella scrittura e nella necessità di confezionare per forza una storia ad incastri, che prendesse la forma di una dolente saga sulle trappole del destino ( ripresa a tutto tondo da “Tree of life” del maestro Terence Malick).
Vuole comporre tre film in uno: il primo sui padri e sulla loro scelta di vita; Il secondo, che possiamo definire vendetta, sui figli che vivono e si comportano in base alle scelte dei loro genitori; e il terzo sul luogo dove tutto ha avuto un inizio e che ben presto avrà una fine.
Comunque grazie ad una regia quasi perfetta con molte visioni in soggettiva in cui la tensione è portata al massimo con pochissimi elementi, il film prodotto è un drammatico ben oliato sicuramente migliore di tante altre pellicole.
Notevole l’intero cast. Da un maledetto Ryan Gosling, passando per un malinconico Bradley Cooper per finire con un’arrabbiata Eva Mendes. Grazie a loro il film ha un’aura diversa, e nonostante i notevoli difetti rendono il film curioso e profondo.
La produzione italiana ha totalmente toppato cambiando il titolo al film. L’originale è “The Place Beyond The Pines”, testualmente Il posto oltre i pini.
Mantenendo il titolo originale lo spettatore riesce a capire precisamente ciò che la pellicola vuole raccontare.
Intitolarlo Come un tuono è esclusivamente una trovata pubblicitaria che distorce il vero pathos della pellicola e fa arrabbiare lo spettatore che si aspetta di vedere un film totalmente diverso e in stile “Point break”.
Nel complesso possiamo definirlo sufficiente, ma se volete passare due ore in compagnia di un po’ di vera azione optate per qualcos’altro.
FABIO BUCCOLINI
“Bling Ring”…gioventù bruciata!
Sofia coppola, la cineasta figlia del grande Francis Ford, racconta una storia vera, specchio dei miti vacui che ossessionano le nuove generazioni impigliate in social network, news di gossip urlate come notizie epocali, smania di celebrità.
“Bling ring”, pellicola d’apertura della sezione Un certain regard al Festival di Cannes 2013, si ispira a un ritaglio di cronaca americana che la regista ha letto su Vanity Fair: “Mi ricordo di quando se n’è cominciato a parlare nelle news, ma all’epoca non ci avevo prestato molta attenzione”. “Poi ho letto l’articolo – continua -, ho pensato che sembrava proprio la trama di un film. Era incredibile: ragazzi giovani e carini che facevano quelle brutte cose nel mondo agiato e scintillante delle star. Le loro dichiarazioni mi hanno molto colpita. Sembrava che non si rendessero conto di aver fatto qualcosa di veramente sbagliato e che fossero – conclude – interessati soprattutto alla celebrità ottenuta grazie alle rapine”.
La trama rispecchia precisamente quei fatti: un gruppo di sette adolescenti e giovani di Calabasas (California) tra l’ottobre del 2008 e l’agosto del 2009 ha svaligiato le case di numerose celebrità, per circa 3 milioni di dollari tra contanti ed effetti personali. Gran parte della refurtiva apparteneva a Paris Hilton, la cui abitazione è stata presa di mira più volte, ma sono stati oggetto di furto anche Audrina Patridge, Rachel Bilson, Orlando Bloom, Miranda Kerr, Brian Austin Green, Megan Fox, Lindsay Lohan. La banda è stata ribattezzata dai media “The Bling Ring”.
Sofia Coppola, che del film è anche autrice del soggetto, sceneggiatrice e co-produttrice, ha avuto una stuzzicante intuizione nello scovare le potenzialità cinematografiche della “banda”.
I suoi furti sono tanto improbabili e incoscienti quanto efficaci. È interessante seguire i passi eccitati di questi ladri improvvisati, in preda alla più concitata emozione di fronte a occhiali Alexander McQueen, borse Birkin, scarpe Louboutin.
Vengono da famiglie tutto sommato benestanti, ma il lusso e il glamour sono la loro fissazione e la molla per la loro baldanzosa attività criminale.
Le fonti alla base delle loro azioni sono riviste o siti di gossip, e poi basta un clic in internet per trovare gli indirizzi delle star.
Una volta arrestati, la principale preoccupazione dei ragazzi è stata avere bella resa in televisione e una adeguata notorietà.
La Coppola ci fornisce tanti dettagli di inquietante adolescenza, eppure sembra poco ispirata e non coglie appieno le possibilità della storia che ha per le mani. Il senso di distacco tipico dei suoi lavori, che di solito è una cifra accattivante, in questo caso è un difetto, che la porta a scavare poco sotto la superficie dei suoi protagonisti poco profondi.
Lungometraggio interpretato adeguatamente da attori quasi sconosciuti, l’unica star (se può essere considerata con questo aggettivo) è Emma Watson che lontana dalla saga di Harry Potter, da prova del suo talento infondendo al personaggio uno spirito adolescenziale in linea con quello che gli richiedeva il copione.
Molto avvincente ed intrigante la colonna sonora: con i suoi ritmi hip-hop accompagna una narrazione molto meno riflessiva rispetto a quello a cui ci ha abituato la Coppola fino a questo momento.
Una curiosità: quando i giovani protagonisti si recano a casa di Paris Hilton per derubarla, quella è la vera casa di Paris.
Un film godibile e ben strutturato che si trova in linea con gli altri prodotti che Sofia Coppola ci ha regalato negli ultimi anni. Solo una pecca… Il film appare molto più commerciale dei lavori passati, non è che “niente niente” anche la figlia del grande Francis Ford Coppola si sia prostrata davanti al vile denaro?
FABIO BUCCOLINI
Alla fine Norman diventò Psycho! Bates motel incorona la stagione dei prequel
Cinema e tv si assicurano il grande successo grazie alle vecchie glorie.
In genere quando si va al cinema ci si chiede: come andrà a finire?
Nel frattempo si resta in attesa di una conclusione adeguata della pellicola che abbiamo scelto di vedere.
Ultimamente questo “lieto fine” non avviene quasi mai. La nuova tendenza, sia del grande schermo che per la tv, è il prequel.
Non basta più il remake sempre pronto all’uso, ma cresce la voglia dello spettatore per cosa sia successo prima, nella “preistoria delle intenzioni”.
Ancora alla ricerca di nuove ed affascinanti idee, ricominciano da capo. Infatti non sequel di grandi opere, ma bensì prequel che ci raccontano la storia dall’inizio.
Esempio: il mago cialtrone del campione d’incassi Il grande e potente Oz 3D. Trasposizione del primo dei diciassette libri di Frank Baum cui si ispirò nel 1939 Fleming per Il mago di Oz con Judy Garland; e il nuovo film finisce appunto da dove riparte l’altro.
Altro esempio mitico è Lo Hobbit. Tratto dal best-seller omonimo di Tolkien, narra precisamente le gesta di Bilbo Baggins fino al suo ritorno nella terra di mezzo dove riparte proprio la prima avventura de Il signore degli anelli.
Molti altri autori si sono immersi in questi progetti di “anticipazione degli eventi”, Ridley Scott con il suo Prometheus ci ha raccontato quello che era avvenuto prima di Alien e perfino una delle saghe horror più importanti degli ultimi anni ha avuto un anticipazione grazie a Non aprite quella porta l’inizio datato 2006.
Ovviamente anche per quanto riguarda l’ambito televisivo questa moda impazza.
Il più grande capolavoro del maestro del brivido, Psycho, è stata trasportato in tv grazie a Bates motel.
L’incipt è incentrato sul rapporto morboso tra il nostro caro e amato Norman Bates e la sua soffocante e iperprotettiva madre Norma.
Tutto inizia quando Norma, dopo la morte del marito, abbandona l’Arizona e si trasferisce in Oregon dove acquista un motel per ricominciare a vivere insieme all’adorato figlio.
Ma la nuova cittadina si rivelera molto misteriosa. Tutti i suoi abitanti hanno segreti celati dietro una facciata di normalità. Insomma, l’ambiente ideale dove crescere una mente fragile come quella del piccolo Norman.
L’unico cambio di rotta dal film originale è stato quello di non ambientare la serie negli anni sessanta ma hai giorni nostri. Questa decisione fu presa dalla casa di produzione per non offendere i puristi della pellicola originale, che già dalla notizia della lavorazione del progetto hanno espresso grande dissenso.
Quali traumi e misteri cela l’infanzia di un serial killer? Cosa ha spinto un giovane, all’apparenza normale, a diventare un adulto sanguinario e psicopatico? Queste sono alcune delle domande a cui cerca di dare una risposta Bates motel.
La prima serie ha spopolato, adesso rimaniamo in attesa per la seconda e nel frattempo vi lascio con una domanda: è stato giusto intaccare un’opera intramontabile come Psycho?
FABIO BUCCOLINI
Machete torna ad uccidere e diverte il pubblico
Con “Machete kills” di Robert Rodríguez, nasce un nuovo genere: il Trash d’autore. Difficile trovare una definizione più contrastante, eppure il regista 45enne ci dimostra quanta tecnica ci voglia per creare un film “sporco”.
“Machete Kills” è il secondo capitolo di una trilogia in piena escalation degenerativa.
Il protagonista Cortez -o Machete, appunto- dopo aver vendicato la morte della moglie e della figlia nel primo film e dopo essersi affiancato ad un’agente dell’immigrazione per “il rispetto della giustizia che non sempre si associa alla legge”, si vede alle prese con niente meno che il presidente degli Stati Uniti; In una classica lotta contro il tempo per disinnescare una bomba piuttosto “particolare”, senza esclusione di colpi.
L’intera saga sembra composta da un doppio climax, uno ascendente e uno discendente, che ci dimostrano quanto Rodríguez abbia maturato e saggiato le potenzialità della trama. Rispetto al primo capitolo diminuisce lo splatter, il sangue diventa meno eccessivo. Meno sangue dunque, ma una maggiore attenzione narrativa.
La trama appare più matura, e per matura non si intende certo “seria”, ma semplicemente più ampia.
In “Machete” si trattava di contrastare un governatore americano e un malavitoso locale. Nazionalismo Texano vs Nazionalismo Messicano. Spazi ridotti. Obiettivo ridotto.
In “Machete Kills” il pericolo che sembra minacciare il solo presidente degli Stati Uniti, si rivela infine un problema di portata mondiale.
Ma non è tutto. I titoli di testa e i titoli di coda sono entrambi preceduti da un trailer che ci anticipa le tematiche del terzo capitolo della saga “Machete Kills Again… in Space”. E Il pianeta Terra diventa soltanto un ricordo lontano, le citazioni di Star Wars (o forse “Balle spaziali”?) si moltiplicano ancora e ancora e il trash, si suppone, raggiungerà un picco (o un fondo?) davvero indescrivibile.
“Machete Kills” diverte perché è assolutamente indecente, eccessivo, demenziale.
Danny Trejo, attore feticcio di Rodríguez, che per anni ha ricoperto ruoli di secondo piano, riesce finalmente con Machete ad impossessarsi di un ruolo centrale. Eppure rimane volutamente un protagonista fuori contesto. Un eroe con una sensibilità emotiva così romantica da cozzare vistosamente con gli sbudellamenti e le decapitazioni che si susseguono come luci in un Luna Park. Un protagonista che biascica poche frasi e persino in terza persona, quasi fosse un novello Tarzan, uomo della giungla inspiegabilmente arrivato alla civiltà. Ad armi sempre più evolute e sofisticate, si contrappone sempre e comunque quel machete che, per quanto si componga di espedienti più o meno letali, rimane pur sempre un primitivo machete.
Il cast, ancora una volta stellare, continua a suggerire quanto il film non sia semplicemente un progetto superficiale, ma una trovata commerciale profondamente studiata.
Ad un Mel Gibson davvero fenomenale e che ci aspettiamo di trovare nel terzo film affiancato (pare) da Leonardo di Caprio, troviamo Charlie Sheen, Sofia Vergara, Amber Heard, Vanessa Hudgens, Jessica Alba, Antonio Banderas e Lady Gaga. Come per dire “ce n’è per tutti”.
C’è chi non ha apprezzato e ha erroneamente paragonato Rodríguez a Tarantino; ma non c’è nulla di più sbagliato. La funzione dello splatter, per quanto cercato ed enfatizzato da entrambi, è poi finalizzato a suscitare due impressioni diverse.
Rodríguez si getta volontariamente nel trash e nella surrealtà, linea che Tarantino non supera mai davvero del tutto. Ciò che accomuna questi due registi è sicuramente la passione per le citazioni e la narrazione sopra le righe; altrimenti, va da sé che ci troveremmo al cospetto di veri e propri horror.
La pellicola è andata davvero male in patria, dove non è riuscirà a raggiungere nemmeno i 10 milioni di dollari di incasso. I suoi costi del si aggirano sui 20 milioni di dollari, pertanto, salvo un grande exploit nell’home video, sarà più difficile arrivare ad un profitto che possa dare il via a “Machete Kills Again…in Space”.
In attesa di una plausibile e probabile (più che altro è una speranza) terza avventura spaziale, “Machete Kills”, ancor più del primo capitolo, si dimostra un film per tutti, che non è per tutti.
FABIO BUCCOLINI
“Robocop 2014”, un pomposo film di Fantascienza che non ha l’anima dell’originale
Dopo una produzione travagliata iniziata nel 2010, il remake del film di Verhoeven del 1987 finalmente vede il buio della sala.
Le più grandi paure dei un fan della vecchia pellicola si sono avverate. Il nuovo Robocop non solo prende proprio le distante dal suo originale, ma ne approfondisce alcuni tratti che sono inutili e soprattutto talmente banali che l’emozione più intensa che si prova nella visione è una grossa e grassa risata.
Partiamo dalla trama: Corre l’anno 2028 e la Omnicorp è il centro della tecnologia robotica. Oltremare, i loro droni sono stati utilizzati da anni dai militari ma in America sono proibiti tra le forze dell’ordine. Ora la multinazionale vuole portare questa controversa tecnologia in casa scorgendo un’opportunità d’oro. Quando Alex Murphy, marito, padre premuroso e poliziotto in lotta per arginare la criminalità e la corruzione a Detroit, viene gravemente ferito, Omnicorp ne approfitta per dare vita a un agente di polizia metà uomo e metà robot. Omincorp vede l’opportunità di avere un Robocop in ogni città con milioni di guadagno per i suoi soci senza però fare i conti con il fatto che c’è ancora un uomo dentro la macchina e tutto non può andare come si era programmato.
Josè Padihla per il suo Robocop, apporta molti cambiamenti alla trama, Murphy non è più un cadavere che viene “trasformato”, ma contro ogni sua volontà, viene inserito in una macchina che gli permette di rimanere in vita. Non è più un cyborg dedito alla legge, ha sentimenti, stati d’animo e soprattutto un cuore. Ogni sua decisione viene presa ponderatamente senza seguire nessun protocollo.
In pratica del film del 1987 fatto di cruda violenza ma soprattutto di carne non c’è più niente, l’unica cosa che si ritrova è la colonna sonora e la classica frase che Alex dice ai cattivi: Vivo o morto tu verrai con me!
Alla domanda se si sentiva l’esigenza di questo remake, si può rispondere tranquillamente di si. Gli anni sono passati e la realtà futuristica raccontata dalla vecchia pellicola è molto più vicina a noi di quello che si può pensare. Ma nonostante si possa giustificare questa nuova versione, quello che non si capisce è perché il regista abbia voluto stravolgere così tanto una storia che era perfetta già prima.
Il film di Verhoeven era perfetto e più che un opera di fantascienza era un noir poliziesco all’avanguardia dove la macchina da presa aggrediva lo spettatore e tutto era incentrato su un robot che faceva rispettare la legge. Non era rimasto niente dell’agente Murphy, tutto ciò che gli rimaneva era parte della faccia e delle video memorie caricate in loop. Era proprio questa la bellezza del film. La macchina si sostituiva all’uomo ma era molto più umana di esso.
Mentre nella nuova versione ti viene tutto spiattellato subito, non c’è una ricerca dell’umanità persa da parte di Robocop, ma è intrinseca nella sua natura quindi il film diviene subito scontato dove non c’è niente da scoprire e il protagonista indossa solo un’armatura. Manca tutta l’anima e il cuore che ci si aspettava da un remake di un grande classico.
L’unica nota positiva è il cast. Michael Keton e Gary Oldman sono fantastici, ma i momenti migliori sono quelli interpretati da Samuel L. Jackson che dimostra, ancora una volta, la sua innata dote di trasformista mai banale.
Per il resto niente di nuovo, un film che si vanta della sua bruttezza ma non si rende conto di essere brutto veramente.
Forse alla nuova generazione piacerà, ma chi ha lodato la vecchia pellicola si astenga dalla visione altrimenti….rimarrà gravemente scottato.
FABIO BUCCOLINI