Archivio mensile:gennaio 2021

“Noi – Us”, la terrificante critica sociale di Jordan Peele

Dopo essere stato acclamato da critica e pubblico per il suo “Scappa – Get out” Peele torna alla carica con un’opera all’apparenza scontata ma con un messaggio sociale devastante.

“Us”, che esce in Italia con il titolo “Noi”, non è una scelta casuale. La famiglia di cui si narra nel film rappresenta un semplice pretesto per discutere gli emarginati, gli esclusi, tutte quelle minoranze sociali che, per qualche ragione, vengono dimenticate, lasciate a marcire sul fondo del mondo. L’idea è tanto semplice quanto straordinaria; Peele cala l’asso, espandendo la sua idea di cinema e rendendola incredibilmente più matura. Dissemina indizi e riferimenti, gioca con la narrazione di superficie, ma è nel/dal sottosuolo che costruisce con perfezione unica le geometrie di un incubo dal quale sarà impossibile fuggire.

La sinossi del film è estremamente semplice e scontata, come la narrazione di superficie di cui parlavo pocanzi: Accompagnata dal marito e dai figli, Adelaide torna nella casa sulla spiaggia dove è cresciuta. Quattro sconosciuti mascherati, però, bussano alla loro porta, dando vita ad un incubo inimmaginabile.

La sceneggiatura in “Noi” è persino più ambiziosa e contorta di quella di Get Out, già di per sé ottima. La premessa qui è intrigante, suggestiva, inusuale. Gli horror hanno abituato lo spettatore all’idea del “cattivo”, dell’entità malvagia da sconfiggere o dalla quale fuggire. In questo caso il cattivo siamo invece noi stessi, ovvero nello specifico le proiezioni malvagie dei protagonisti, le loro nemesi.

La poetica di Peele è ormai chiara, e la sua voglia di raccontare le minoranze, sfruttando la sua caparbia volontà di utilizzare solo attori afroamericani come protagonisti, non fa che accentuare una sorta di “razzismo contrario” che, se da una parte rischia di far deflagrare l’opinione pubblica su se stessa nel corso del tempo, è funzionale alla cattiveria insita nella scrittura di queste opere.

In “Noi” c’è tutto: tensione, spavento, atmosfera, storia, ironia, sangue, emozioni. Forse non sarà l’horror tutto jumpscare e urla che ormai il mercato propone incessantemente (e che il pubblico invoca a grande richiesta) ma parliamo in ogni caso di una pellicola che merita solo elogi, così come il suo regista ed i suoi attori. Un’inquietante ed avvincente favola dark dell’orrore dove, per restare uniti e salvarsi, non bisogna più scappare via da loro, ma da noi stessi.

La densa mole di spunti non appesantisce il racconto, che nella calibrata alternanza di scene di azione e momenti di tensione guadagna un equilibrio dinamico e coinvolgente. Non mancano per la verità alcune incongruenze narrative, che nel filone horror sono quasi un difetto congenito. Il parziale rigetto della verosimiglianza è però consapevole; “Noi” si appella piuttosto alla simbolicità dell’inconscio, per il quale le coincidenze sono manifestazioni coerenti di una sincronicità sottesa e l’estraneità è una distorsione psicologica del familiare. Si spiega in tal modo la presenza all’interno del testo filmico di un vasto alfabeto simbolico di matrice pop. A questo proposito merita particolare attenzione la t-shirt in cui campeggia il Michael Jackson di “Thriller”, umano e zombie, uomo e donna, nero e bianco, definito da Peele stesso “santo patrono dell’ambiguità”.

Le risate e gli stilemi dell’horror raccontano semplicemente la capacità di Peele di divertirsi, fondata sul suo background artistico. Ciò non toglie che le tematiche affrontate siano attuali e potenti, in grado di far riflettere e senza troppi mezzi termini. Per questo, per una volta, la chiara spiegazione finale, che non lascia adito ad interpretazioni, è perfetta.

Vi lascio con l’idea di base del film, con la quale Jordan Peele parla agli spettatori e…all’umanità intera:

Geremia 11:11: “Perciò, così parla l’Eterno: ecco, io faccio venir su loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò.”

A noi l’arduo compito di riflettere, riflettere…riflettere.

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “Underground” il capolavoro di Emir Kusturica

Kusturica epico e surreale ci accompagna in questa favola balcanica che si dipana dai tortuosi meandri della seconda guerra mondiale fino alla guerra etnica tra serbi e bosniaci. Palma d’oro al festival di Cannes 1995.

Parlare di “Underground” del serbo Kusturica è un’impresa pressocché difficile: è un film immenso. Quasi tre ore di durata a coronare la storia rimossa di un paese senza più storia, dove si mescolano registri, personaggi, immaginari.

Un’opera, premiata con la palma d’oro al festival di Cannes 1995, insieme tragica e coloratissima dove Kusturica ha il tocco della leggerezza: come pochi altri riesce a raccontare l’orrore della guerra e il dramma della morte con eccezionali cadenze da commedia (sì, in alcuni punti fa pure sorridere e ridere) e anche dove si rischia il pianto (nel finale), “Underground” nega ogni pietà e compassione inquadrando i suoi personaggi con impeto quasi surrealista.

“Underground” nasce come un affresco corale in chiave grottesca su mezzo secolo di storia jugoslava. Dalla guerra alla guerra, dall’invasione nazista di Belgrado del 1941 alla polveriera degli anni 90. E’ il manifesto dell’estetica caotica di Kusturica, l’apoteosi della sua debordante fantasia. Il film gronda di immagini, e la più forte è proprio quella del titolo; “La Jugoslavia è una cantina” – ci dice Kusturica, rievocando la caverna di Platone, dove gli schiavi vedono solo le ombre deformate della verità. Ma underground è anche sinonimo delle caves dove studenti, intellettuali e disertori resistevano a ritmo di rock al regime titoista, così come dei rifugi dove la popolazione di Sarajevo cercava scampo al furore dell’assedio.

Questa la sinossi del film: “Nel 1941, dopo il primo raid aereo tedesco su Belgrado, comincia l’ascesa del compagno Marko. Lui e il suo amico Blacky convincono il loro clan a rifugiarsi in un sotterraneo e a fabbricare armi e altri prodotti per il mercato nero.”

Scorbutico e politicamente scorretto, Kusturica è in realtà uno dei registi più vezzeggiati in Europa, dove ha fatto incetta di premi (Leone d’oro a Venezia per “Ti ricordi di Dolly Bell?”, Palma d’oro a Cannes per “Papà è in viaggio d’affari”). Gli mancava ancora l’affondo per conquistarsi definitivamente un posto tra i maestri della cinematografia; per farlo, torna nelle viscere della sua Jugoslavia.

Regia, scrittura e fotografia sono terribilmente evocative e artistiche, incredibilmente funzionali alla storia da raccontare, senza troppi fronzoli. Persino le tre ore (che scorrono tutte d’un fiato: impossibile annoiarsi, a meno che non lo si guardi distrattamente) sono necessarie per mostrare, conoscere e amare questa “grottesca commedia dell’umanità”. Sullo sfondo una guerra invisibile distrugge case, corpi e ricordi; i personaggi (estremamente sopra le righe) vivono, inconsapevolmente sfruttati, in un bunker sotterraneo fino al 1961 quando, nel 1992, non subiscono una nuova battaglia. Alcuni nascono, altri muoiono. Ci si ama, ci si odia, ci si tradisce, ci si sposa, si fa festa. Il paradossale e coinvolgente percorso di queste anime è cadenzato da un’allegra colonna sonora gitana e man mano che scorrono i minuti, si passa ben presto ad un’insostenibile umanità.

Opera cruciale, immancabile nella filmografia di un cinefilo che si rispetti. Un film d’autore, certo, ma fruibile e apprezzabile da tutti: rimane impresso e invoglia una seconda visione.

“Underground” resta un’opera epocale, che ha segnato uno spartiacque nella stessa cultura dei Balcani.

Un film che è un necrologio, un’atroce parabola, ma anche un inno alla vitalità sfrenata degli “slavi del Sud”.

“La guerra è guerra quando due fratelli si uccidono a vicenda.”

FABIO BUCCOLINI