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Assassinio sul Nilo: Agatha Christie secondo Branagh

Dopo la trasposizione di Assassinio sull’Orient Express, Branagh torna sul luogo del delitto; portando l’investigatore sul Nilo e mettendo a nudo il Poirot che tutti conosciamo.

Già dal suo primo adattamento di Poirot Assassinio, Branagh aveva messo in chiaro che non era interessato a portare su schermo un adattamento della fonte principale; Anzi, con un guizzo di vanità non estraneo al piccolo detective belga, ne aveva deformato fisicità e fattezze assumendo in prima persona il ruolo. Il regista e attore inglese ha creato un nuovo Poirot, che sin dal primo film scoprivamo avere un dramma d’amore passato e una presenza magnetica ben differente dalla sua fonte letteraria.

Fango e guerra di trincea. Inizia così Assassinio sul Nilo, in bianco e nero, senza abiti eleganti e alta borghesia in scena, ma con giovani soldati alle prese con una missione suicida. È un prologo straniante ma fondamentale per indirizzare la bussola di un film solo in apparenza molto simile al suo predecessore: perché Assassinio sull’Oriente Express era un film con Poirot, mentre Assassinio sul Nilo è un film su Poirot.

Il film infatti si concentra a sorpresa sul passato e sulla psiche del protagonista più che sugli omicidi che cominciano a tingere il Nilo di rosso sangue. Branagh ci consegna il ritratto di un uomo lontano dalla capricciosa e vanesia serenità del passato, più vicino alle inquietudini degli ultimi romanzi della Christie. Un cambio di rotta rispetto al primo capitolo con una spiegazione semplice. Nessun mistero in questo caso. È come se l’ambientazione avesse influenzato lo spirito di tutto il film, con il caldo afoso dell’Egitto ad accendere i fuochi dei tormenti. Laddove Assassinio sull’Orient Express esaltava il rigido metodo deduttivo di Poirot con una storia razionale, ambientata tra i ghiacci, Assassinio sul Nilo è un film più rovente, caldo e passionale. Bollente come il triangolo amoroso al centro della trama.

Attraverso un gioco di specchi stuzzicante, se non addirittura ammirevole, Branagh è partito rispettosamente da Agatha Christie per arrivare al suo amato, imprescindibile William Shakespeare; il suo film pian piano si copre d’un velo malinconico che conduce a un finale emozionante, perfetta chiusura per una storia che vuole rappresentare l’amore prima di tutto come mancanza.

Assassinio sul Nilo, nella sua anima, è un film sorprendentemente e dolorosamente romantico. Nonostante tutto, questa pellicola non è priva di sbavature in particolar modo nella scelta di un cast meno omogeneo rispetto a quello di Assassinio sull’Orient Express. Non tutti gli attori funzionano a dovere. Meritano invece di essere segnalate la presenza scenica e l’avvenenza di Sophie Okonedo, l’unica oltre ovviamente a Branagh a lasciare il suo marchio sul film.

Rispetto al primo film questa operazione condotta da Branagh si dimostra più coraggiosa, più incisiva. È destinata a non piacere a tutti e soprattutto ai puristi di genere, ma la volontà di girare in pellicola 70 millimetri, la decisione di abbandonare il tono allegro dell’originale per immergersi in un’atmosfera post bellica e plumbea, testimoniano che, pur essendo un compito, il regista lo assolve prendendosi qualche rischio e regalando un buono spettacolo al suo pubblico.

Ci regala un’opera, certo, non priva di pecche ma sicuramente gradevole e in grado di affascinare.

In attesa di nuovi capitoli, ringraziamo Branagh per aver dato una rotta più incisiva al personaggio.

Halloween kills: come dissacrare la figura di Michael Myers

Michael torna alla carica in questo nuovo, sfuocato capitolo dove la parola d’ordine è noia.

Nel 2018 David Gordon Green rilancia il mito di Michael Myers con un reboot/sequel in grado di conquistare la critica. Il successo fu enorme, dato soprattutto dal ritorno di Jamie Lee Curtis nel personaggio dell’iconica Laurie Strode, acerrima rivale del killer. Fece cosi tanto clamore che ad un certo punto, quel “piccolo” reboot si trasformo in una nuova trilogia. Halloween kills è appunto il secondo capitolo di quest’ultima che vorrebbe elevare Michael ad un’altra dimensione ma riesce solo a rovinare un’icona immortale creata dalla mente geniale di John Carpenter.

Il film riparte dal finale del precedente. Laurie Strode, dopo aver dato fuoco a casa sua per uccidere Michael Myers, viene portata di corsa all’ospedale con ferite mortali, convinta di aver finalmente ucciso il suo tormentatore di una vita, insieme a sua figlia Karen e alla nipote Allyson.

Purtroppo, però, Michael riesce a liberarsi dalla trappola e ricomincia a uccidere, seminando morte mentre Laurie lotta tra la vita e la morte. Mentre la donna cerca di guarire, gli abitanti di Haddonfield si ribellano contro l’inarrestabile mostro. Così un gruppo di sopravvissuti al primo massacro di Michael decidono di prendere in mano la situazione, formando una folla di “vigilanti” per cacciare Michael una volta per tutte.

Presentato fuori concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, il film profana il mito creato da John Carpenter, limitandosi ad allungare un brodo che hanno cucinato come ricca trilogia. Se nel capolavoro originale non si vedeva praticamente mai del sangue, perché la paura emergeva dall’ombra, David Gordon Green si diverte a seminare morti ammazzati, con Michael semplicemente chiamato a fare una strage.

Cadavere dopo cadavere, la sceneggiatura si limita ad immaginare omicidi differenti ed efferati, mentre attorno al mostro l’insensatezza regna sovrana.

Non c’è più la ferocia che ha caratterizzato il personaggio per anni, ormai è diventato un killer pianificatore, sembra che alcuni omicidi siano preparati con una lucidità che non ha mai fatto parte di lui. Ad un certo punto ci si domanda, ma siamo andati a vedere Halloween o un documentario su Ted Bundy?

Un sequel fuori controllo nella scrittura, a tratti involontariamente comico ed esageratamente slasher.  La famigerata “essenza del male” che Myers rappresenta perfettamente da oltre 40 anni assume in Kills i contorni di un frullatore di carne umana, che molto semplicemente fa a pezzi chiunque osi trovarsi sulla sua strada.

Un capitolo due stanco e privo di idee che compie il suo più grande errore nel lasciare in panchina una Jamie Lee Curtis, che di fatto è una figura secondaria all’interno di un titolo che trasforma Michael Myers in una sorta di uomo nero immortale.

Il film del 2018 è stata un’operazione estremamente intelligente e aveva sapientemente fatto rinascere il legame tra lo psicopatico e l’ex babysitter; qui inspiegabilmente la cabina di sceneggiatura spegne tutto ciò e confeziona solamente uno slasher dove a regnare è solo ed esclusivamente il sangue. Se non si fosse chiamato Halloween questo titolo sarebbe tranquillamente passato in sordina.

Si rimpiange a grande voce la versione iper-violenta e più umana di Rob Zombie.

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “Underground” il capolavoro di Emir Kusturica

Kusturica epico e surreale ci accompagna in questa favola balcanica che si dipana dai tortuosi meandri della seconda guerra mondiale fino alla guerra etnica tra serbi e bosniaci. Palma d’oro al festival di Cannes 1995.

Parlare di “Underground” del serbo Kusturica è un’impresa pressocché difficile: è un film immenso. Quasi tre ore di durata a coronare la storia rimossa di un paese senza più storia, dove si mescolano registri, personaggi, immaginari.

Un’opera, premiata con la palma d’oro al festival di Cannes 1995, insieme tragica e coloratissima dove Kusturica ha il tocco della leggerezza: come pochi altri riesce a raccontare l’orrore della guerra e il dramma della morte con eccezionali cadenze da commedia (sì, in alcuni punti fa pure sorridere e ridere) e anche dove si rischia il pianto (nel finale), “Underground” nega ogni pietà e compassione inquadrando i suoi personaggi con impeto quasi surrealista.

“Underground” nasce come un affresco corale in chiave grottesca su mezzo secolo di storia jugoslava. Dalla guerra alla guerra, dall’invasione nazista di Belgrado del 1941 alla polveriera degli anni 90. E’ il manifesto dell’estetica caotica di Kusturica, l’apoteosi della sua debordante fantasia. Il film gronda di immagini, e la più forte è proprio quella del titolo; “La Jugoslavia è una cantina” – ci dice Kusturica, rievocando la caverna di Platone, dove gli schiavi vedono solo le ombre deformate della verità. Ma underground è anche sinonimo delle caves dove studenti, intellettuali e disertori resistevano a ritmo di rock al regime titoista, così come dei rifugi dove la popolazione di Sarajevo cercava scampo al furore dell’assedio.

Questa la sinossi del film: “Nel 1941, dopo il primo raid aereo tedesco su Belgrado, comincia l’ascesa del compagno Marko. Lui e il suo amico Blacky convincono il loro clan a rifugiarsi in un sotterraneo e a fabbricare armi e altri prodotti per il mercato nero.”

Scorbutico e politicamente scorretto, Kusturica è in realtà uno dei registi più vezzeggiati in Europa, dove ha fatto incetta di premi (Leone d’oro a Venezia per “Ti ricordi di Dolly Bell?”, Palma d’oro a Cannes per “Papà è in viaggio d’affari”). Gli mancava ancora l’affondo per conquistarsi definitivamente un posto tra i maestri della cinematografia; per farlo, torna nelle viscere della sua Jugoslavia.

Regia, scrittura e fotografia sono terribilmente evocative e artistiche, incredibilmente funzionali alla storia da raccontare, senza troppi fronzoli. Persino le tre ore (che scorrono tutte d’un fiato: impossibile annoiarsi, a meno che non lo si guardi distrattamente) sono necessarie per mostrare, conoscere e amare questa “grottesca commedia dell’umanità”. Sullo sfondo una guerra invisibile distrugge case, corpi e ricordi; i personaggi (estremamente sopra le righe) vivono, inconsapevolmente sfruttati, in un bunker sotterraneo fino al 1961 quando, nel 1992, non subiscono una nuova battaglia. Alcuni nascono, altri muoiono. Ci si ama, ci si odia, ci si tradisce, ci si sposa, si fa festa. Il paradossale e coinvolgente percorso di queste anime è cadenzato da un’allegra colonna sonora gitana e man mano che scorrono i minuti, si passa ben presto ad un’insostenibile umanità.

Opera cruciale, immancabile nella filmografia di un cinefilo che si rispetti. Un film d’autore, certo, ma fruibile e apprezzabile da tutti: rimane impresso e invoglia una seconda visione.

“Underground” resta un’opera epocale, che ha segnato uno spartiacque nella stessa cultura dei Balcani.

Un film che è un necrologio, un’atroce parabola, ma anche un inno alla vitalità sfrenata degli “slavi del Sud”.

“La guerra è guerra quando due fratelli si uccidono a vicenda.”

FABIO BUCCOLINI

I film di Natale. “S.O.S. fantasmi” il cantico di Richard Donner

Liberamente ispirato al “Canto di Natale” di Dickens, Donner confeziona un film perfetto tra attualità e fantasia con un Bill Murray in stato di grazia.

Un grande classico come “Il Canto di Natale” di Charles Dickens, diventa un meta-racconto tra letteratura, televisione e cinema. “S.O.S Fantasmi” è uno di quei film immancabili sotto l’albero; vuoi perché rielabora una popolarissima favola sul Natale trasformandola in un divertissement grottesco e satirico, vuoi perché è uno di quei film che i fan di Bill Murray non possono che vedere e rivedere ogni anno.

È Natale, abbassiamo qualsiasi difesa ideologica e resistenza agli improbabili happy ending, e ci lasciamo trasportare al calduccio, concedendoci qualche risatina, e dosi di speranza. Ciò che questo film ci regala in più, è la nota grottesca, che lo distingue da tanti altri casi cinematografici del filone.

Questa è la trama: “Un cinico produttore televisivo, il cui comportamento lo ha allontato da tutti coloro che gli volevano bene, sta preparando una trasmissione tratta dal ‘Racconto di Natale’ di Dickens. Tre fantasmi si presentano al suo cospetto per farlo riflettere sulla sua vita.”

Tanta attenzione su questo film ci fu per la presenza di Bill Murray. “S.O.S. Fantasmi” segnava il ritorno sulle scene dell’attore dopo un lungo periodo di inattività. A seguito del successo di Ghostbusters Murray tentò di calarsi in un ruolo drammatico ne “Il filo del rasoio” di John Byrum, fallendo però miseramente. A quel punto l’attore entrò in crisi esistenziale e si ritirò a studiare storia e filosofia alla Sorbona di Parigi. Solo 4 anni dopo tornò a recitare proprio per questo film. Per questa ragione Murray puntò moltissimo sulla pellicola. Una curiosità è proprio che sul set l’attore si rivelò iperattivo e il regista Richard Donner (che girò il film fra Arma Letale e il sequel Arma Letale II) in un’intervista disse che dirigerlo fu come “per un vigile dirigere il traffico fra 42esima strada e Broadway, mentre i semafori sono spenti”.

Senza troppe pretese, il film è una frizzante e piacevole commediola natalizia, con un Murray mattatore a briglia sciolta, che si lascia sfuggire più di una battuta non necessariamente per famiglie. Anche se grossolani, sono divertenti gli effetti speciali con cui vengono rappresentati gli spettri, specialmente il macabro cadavere in decomposizione dell’amico. Piccolo ruolo per Robert Mitchum e lieto fine prevedibile, trattandosi di una storia natalizia. Ingenuo ma anche innocuo, da rivedere con la famiglia durante le feste. Dirige Richard Donner, tra gli immancabili della commedia popolare anni Ottanta.

“A Natale puoi, fare quello che non puoi fare mai, canta il famoso spot natalizio.”

Puoi addirittura cambiare totalmente personalità e magicamente diventare un benefattore ispirato dai più grandi valori etici e morali.

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “Paura e delirio a Las Vegas”, l’on the road allucinogeno di Terry Gilliam

Terry Gilliam e due dei più talentuosi attori della loro generazione; un irriconoscibile Johnny Depp, reso calvo e con il volto costantemente deformato, e Benicio del Toro, ingrassato appositamente di circa 20 Kg, sono la ricetta di un film diventato cult con il passare del tempo, essendo stato un flop d’incassi all’uscita.

“Paura e delirio a Las Vegas” è ispirato al romanzo Fear and Loathing in Las Vegas, un racconto autobiografico del giornalista e scrittore Hunter S. Thompson, basato sulle sue scorribande a Sin City in compagnia del proprio avvocato.

Fu lo stesso regista a universalizzare il senso del romanzo di Thompson. Quando “Paura e delirio a Las Vegas” vede la luce nel 1998, provocando reazioni a dir poco divise in quel di Cannes, per poi essere quasi totalmente massacrato dalla critica in patria; l’Europa, come d’abitudine con il regista, si dimostrerà invece più clemente. Rimettere mano agli eccessi e alle schizofrenie di un’epoca irripetibile. Il Gilliam che aveva attraversato l’oceano per unirsi ai folli Monty Phyton, segnando una cesura netta con la propria patria, torna a Hollywood quando le sirene reazionarie già iniziano a fare capolino, e cerca di mettere a soqquadro un sistema solido, stratificato, eppure sempre più prossimo alla mediocrità produttiva.

Quest’opera è stata caratterizzata da una genesi tormentosa e oltremodo lunga, a causa dello scarso budget di produzione, del continuo passaggio di mano dello script e della a lungo infruttuosa ricerca del cast adatto. Dopo aver ricevuto il rifiuto di numerose case di produzione, essere stata nelle mani di Alex Cox e aver avuto (quasi ufficialmente) coppie di attori protagonisti e avendole perse per i più disparati motivi, sembrava non avere futuro. Essa finalmente prese vita quando fu proposta a Gilliam, il quale riscrisse quasi per intero la sceneggiatura e i due ruoli principali vennero affidati a Johnny Depp e Benicio del Toro.

Ambientato negli anni ’70 negli Stati Uniti, questo road movie psichedelico ha l’ambizione di riflettere intorno alla chimera che i giovani hanno rincorso durante la grande ondata di LSD a San Francisco, periodo da cui sono nati gli artisti della beat generation, in cui i ragazzi credevano di poter cambiare il mondo con la sola forza dell’amore e della pace. Utopia infrantasi nel giro di pochi anni.

Il film è costruito con maestria: il filo narrativo non è fortissimo, ma insieme alla fotografia e alle inquadrature lisergiche serve a enfatizzare il vero ‘viaggio’, quello mentale, a base di droghe psicotrope, non quello finalizzato a correre sul luogo degli eventi per immortalarli con la propria penna. Quello è solo un pretesto per mostrare un percorso diverso, parallelo a quello triste e ordinario di coloro che sperano di cavalcare trionfanti il Sogno Americano. Un viaggio a base di mescalina, cocaina, metedrina, LSD, oppio, etere puro, che ha lo scopo non solo di ritrovare quell’apice che i giovani della seconda metà degli anni ’60 hanno vissuto, ma di scoprire in fondo qual è il vero senso della vita, attraverso l’illusoria espansione di coscienza promossa da Timothy Leary in quegli anni.

Terry Gilliam tenta un’impresa realizzata pochissime volte prima di lui a livelli così alti (a memoria ricordiamo solo Il pasto nudo di David Cronenberg), cioè immergersi completamente nella mente di due persone in preda al delirio di droghe e alcool, mostrandoci con ardite scelte registiche e una perfetta computer grafica le loro allucinazioni, la distorsione della loro realtà e le inevitabili conseguenze sui loro comportamenti.

Quest’opera vuole descrivere un’epoca e una condizione sociale e personale. Non si deve credere che l’intelligenza e la conseguente lettura di un mondo imperfetto e di una società a pezzi conduca l’individuo a danneggiarsi e stordirsi. Bisogna scoprire una mentalità errata per poi poterla evitare.

Da vedere, capire e riflettere su ciò che ci viene mostrato.

E come disse il nostro caro Raoul Duke:

“Ecco che se ne va. Uno dei prototipi di Dio, un mutante ad alta potenzialità neanche preso in considerazione per le produzioni di massa. Troppo strano per vivere e troppo raro per morire.”

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “Doom generation” la gioventù secondo Gregg Araki

Un film necessario per capire cosa sono stati gli anni 90, e cosa sarebbe accaduto in futuro. Un vero e proprio capolavoro underground generazionale volutamente eccessivo e sgradevole.

Film manifesto della poetica di Gregg Araki, “Doom Generation” è un apocalittico on the road ambientato sullo sfondo di un desertico paesaggio americano. Il regista palesa veramente sotto gli occhi di tutti il vuoto di una generazione condannata tra programmi televisivi dementi, AIDS e sale da videogames, disoccupazione e perdita dei valori; scodella un mix tra Tarantino, il David Lynch di “Cuore Selvaggio”, sequenze erotiche ai limiti del porno e colonna sonora martellante in stile Rave party.

 Esteticamente vicino agli “Assassini “nati” di Oliver Stone, è come trovarsi di fronte ad uno spettacolo selvaggio che solo apparentemente è avulso e distante dalla realtà di quei giovani negletti e alienati cresciuti davanti ai bagliori del tubo catodico e dei video Mtv.

Questa la sinossi: “Jordan White (James Duval) e Amy Blue (Rose McGowan) sono una giovane coppia che intraprende un viaggio senza meta on the road. Incontrano Xavier Red (Johnathan Schaech) a un rave e lo prendono a bordo, ma le cose sfuggiranno loro di mano. Tra omicidi, risse e sesso a tre, il viaggio continuerà all’insegna del nonsense”.

Tra gli attori una bellissima Rose McGowan agli inizi della carriera che spicca su tutti e non disdegna di mostrare il suo corpo, il suo rossetto rosso e gli occhialoni scuri.

Araki dirige un film apparentemente estremo ma estremamente sincero. Costruisce un’opera andando contro le regole hollywoodiane: un road movie ambientato prevalentemente in interni, un linguaggio senza mezzi termini, coreografie sessuali che sfiorano il soft-core arrivando a raccontare lo sguardo dei suoi personaggi in termini onirici, con un certo gusto weird e non-sense. Non vuole spiegare il perchè delle cose; semplicemente non gliene può fregar di meno, non c’è un perché. Tutto quello che sembrerebbe un nulla di fatto, è assolutamente perfetto: non ci sono coordinate da seguire, non c’è inizio o fine, è solo un’isola nel deserto. 

L’autore ci mostra quello che non gli piace con stile ironico e grottesco. Lo splatter fumettistico e i personaggi sono al di fuori dei canoni, sconvenienti e sporchi come il mondo che li circonda.

Insomma, “Doom Generation” è un delirio, un atto di coraggio praticamente snobbato dal mondo intero che può irretire, irritare, farsi amare e comprendere. Imperfetto e strampalato, però almeno qualcuno ci ha provato a dipingere (senza voler far cassa) quella massa informe che è la generazione x e solo per questo merita di essere un cult.

Un film essenziale per comprendere a pieno gli anni 90.

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “Lo zio di Brooklyn”, l’esordio alla regia di Ciprì e Maresco

Franco Maresco e Daniele Ciprì, riprendendo il discorso affrontato con Cinico TV filmano un alieno, un uomo attualissimo e volutamente freak. Una bomba che colpisce e devasta l’immaginario e la prassi del cinema italiano. Un capolavoro.

Il primo lungometraggio di Daniele Ciprì e Franco Maresco è un’opera anarchica e frammentata, costellata da gran parte degli attori non professionisti già visti sul piccolo schermo e capace di sorprendere lo spettatore non tanto per la storia, quanto invece per le intuizioni meta-cinematografiche che ricordano continuamente di trovarsi di fronte un pasticcio dissacrante e irriverente. L’immaginario legato alla Sicilia tutto famiglia, processioni, religione, rituali, mafia e virilità (il cast, lunghissimo, non comprende neanche una donna) è piegato all’eccesso e all’iperbole tragicomica: i due autori radicalizzano la propria idea di cinema; fare di necessità virtù coi pochi mezzi a disposizione per privilegiare una messa in scena in cui la desolazione della scenografia sia più presente possibile, ed esasperano la propria visione del mondo rivelando come fonti di ispirazione il neo-realismo pasoliniano e la leggerezza felliniana.

Questa la trama: “Nella periferia palermitana, nell’atmosfera da dopo bomba, è arrivato un misterioso “mammasantissima” americano, che la famiglia Gemelli dovrà ospitare e nascondere. Intorno all’uomo, che non parla mai, non dorme mai, non mangia mai, si muovono una serie di personaggi strani ed inquietanti: maghi, boss mafiosi, nani che intrecciano le loro vite in una commedia cinica”.

Nell’orrido dell’immaginario anni Novanta, nei colori accesi di una televisione trasudante disimpegno, nella vaga e vana resistenza di un cinema sempre meno spigoloso e scomodo, in cui l’impegno si traduce in una collocazione di genere e non più in una postura intellettuale, etica e morale, “Lo zio di Brooklyn” è un atto politico, corrosivo e che non concede appigli né spiragli. Se si accetta la crudezza esibita del film si viene triturati. Se non la si accetta… Si viene triturati lo stesso. Anche per questo il pensiero egemone della cultura italiana, a partire da buona parte della critica, vi si scagliò contro, in un processo preventivo che ebbe poi la sua coda allucinata e allucinante qualche anno più tardi, con “Totò che visse due volte” (quì la recensione https://fabiobuccolini85.wordpress.com/2014/09/09/i-film-dimenticati-toto-che-visse-due-volte-il-film-vietato-a-tutti-che-deve-essere-assolutamente-visto/). Evidentemente un film come questo non s’ha da fare, perché gli stracci che mostra con furore sono a conti fatti i figli più nobili e sinceri del neorealismo. A venticinque anni di distanza dalla sua realizzazione “Lo zio di Brooklyn” è ancora un oggetto non identificato che si disperde nel nulla. La sua polvere la si è nascosta sotto il tappeto, per evitare che gli invitati al banchetto della produzione cinematografica ne avvertano la presenza. Riprendere le fila del discorso è ormai utopico, perché l’Italia è andata avanti standardizzandosi sempre più. Ma la “bombetta”, come la chiama Maresco, può sempre esplodere in faccia ai banchettanti.

“Lo zio di Brooklyn” non fu solo un debutto, bensì il biglietto da visita di due teorici e intellettuali che restituì linfa vitale al dibattito cinematografico e culturale (arrivato all’apice con Totò che visse due volte) e segnò l’inizio di un rigore e un’indipendenza creativa (il rapporto con De Laurentis si interruppe subito dopo le polemiche di stampa e opinione pubblica, in primis siciliana) ancora inalterati.

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. El mariachi, la straordinaria opera prima di Robert Rodriguez

Con un budget di solo 7.000 dollari, Robert Rodriguez al suo esordio cinematografico sforna un’opera strabiliante che è diventato un vero e proprio cult degli anni novanta.
El mariachi
El Mariachi” è una gradevolissima sorpresa. Un po’ sgangherato, pericolosamente oscillante tra i toni del grottesco e quelli della tragedia, con scivolate addirittura nell’onirico, ha però dalla sua un gran bel ritmo, un uso quasi spregiudicato della macchina da presa e alcune battute fulminanti. ”
Il film fu il “caso produttivo” dell’anno.
La storia di questa pellicola nata come esperimento per il circuito dell’home video messicano e poi lanciato alla grande dalla Columbia è di quelle che possono facilmente suscitare l’invidia.
Questa la trama: “El Mariachi desidera unicamente suonare la chitarra e portare così avanti la tradizione di famiglia. Sfortunatamente per lui, la città dove si trova alla ricerca di lavoro vede l’arrivo di un altro straniero, un killer che porta con sé delle pistole all’interno di una custodia per chitarra. Il signore della droga locale e i suoi scagnozzi scambiano El Marriachi per l’assassino e iniziano a dargli una caccia serrata. Il protagonista si innamora inoltre della donna del boss, complicando ulteriormente la sua situazione”.
Il primo lungometraggio del ventiquattrenne Robert Rodriguez, nato a Sant’Antonio nel Texas, è costato solo 7000 dollari, è stato girato in meno di 15 giorni, con attori non professionisti, le armi messe a disposizione dalla polizia locale e i soldi guadagnati dal regista facendo da cavia in una clinica per ricerche farmacologiche.
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Merita di essere visto, perché “El Mariachi” è un indiretto “documentario” sulla realizzazione di una pellicola con pochissimo budget. Grezzissimo esordio cinematografico per lo specialista Rodriguez. I mezzi sono quelli che sono, il budget è ultralimitato e gli attori sono tutto fuorché veri attori, ma nonostante questo l’impronta del regista texano si nota immediatamente e l’originalità della sceneggiatura è indubbia. Ovviamente non mancano le classiche 4-5 scene d’azione ben sopra le righe, che diventeranno ben presto il marchio di fabbrica di Rodriguez già dal successivo “Desperado”.
Spettacolare e suggestivo affresco di un Messico polveroso e violento, annegato nel Pulp puro e febbricitante. E’ doveroso quando si parla di questo film, sottolineare abbondantemente il fatto che sia stato girato con un budget veramente basso ma ci fa capire chiaramente quanto sia alto il livello qualitativo della pellicola considerata l’emblema di un genere cinematografico spurio e particolarissimo: il burrito-western.
Ricco di sparatorie e inseguimenti, velato di una romantica malinconia, è un’opera unica che rimane un unicuum di spettacolare e poetica bellezza.

“CON LA CHITARRA IN MANO E UNA TAGLIA SULLA SUA TESTA, NON CERCAVA GUAI…MA I GUAI VENNERO A CERCARLO”

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “Climax” l’horror secondo Gaspar Noé

Il nuovo film di Gaspar Noé è la folle notte di un gruppo di ballerini, fra eros e droghe, in un’inarrestabile discesa negli abissi del delirio.

Climax poster

Da un certo punto di vista Gaspar Noé, più che un regista, potrebbe essere visto come un dj. D’altronde i suoi film sono un po’ come un invito a ballare: l’unica cosa che lo spettatore deve fare è decidere se lasciarsi trasportare dalla musica e dalle luci psichedeliche oppure se abbandonare il locale per evitare il mal di testa. Non ci sono mezze misure o sfumature; è difficile poter pensare di rimanere seduti in disparte a guardare gli altri che ballano. E forse, mai come con “Climax”, il regista argentino è riuscito a tradurre questa sua idea di cinema per immagini. Il film viene definito come un mashup tra “Step Up” e “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. È un paragone tanto bizzarro quanto calzante per dare un’idea dell’opera di uno degli autori più controversi del cinema contemporaneo, girata in appena due settimane in una scuola abbandonata della periferia di Parigi e presentata alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2018. Un film radicale fin dalla sua impostazione, che il regista franco-argentino trasforma in un’allucinata parabola di frenesia e di morte sviluppata nel corso di novanta, frastornanti minuti.
“Climax” è uno di quei titoli che puoi amare o odiare: il fascino è direttamente proporzionale alla repulsione. Forse è una sfida fare tanti film mutanti tutti insieme. Che ribaltano il concetto di tempo. in un unico spazio. Dove comincia? Dove finisce? La nascita e la morte. L’euforia e la disperazione. Quest’opera è frenesia, estasi, tormento e tenebre. Potrebbe partire dalla fine. Come “Irréversible”. Un ventina di giovani ballerini si riunisce per uno stage di tre giorni in un collegio in disuso. Ballano, si ubriacano, sembrano tutti su di giri. Poi c’è qualcosa nella sangria. E il clima cambia rapidamente.

Climax

Un vortice visivo che tende a risucchiare personaggi e spettatori in un’escalation di sensazioni ed eventi senza via d’uscita. Un ballo mortale in cui i corpi progressivamente si deformano, perdono la propria unicità e grazia, diventando un magma di carne, sudore e sangue di cui a tratti sembra quasi di sentirne l’odore. Un climax viscerale orchestrato per mettere ancora una volta al centro del discorso l’inesorabile forza distruttiva del tempo che, come un inarrestabile conto alla rovescia, travolge ogni cosa riportandola al punto di partenza. Visivamente potentissimo. Strutturalmente estremamente audace. Con un piano sequenza inarrestabile in un ballo collettivo senza respiro. Tra Erik Satie e i Rolling Stones. In un clima di festa, di colori che esplodono. Un massacro di cui Noé ci rende spettatori, ma mantenendo sempre un netto distacco emotivo rispetto a personaggi di cui sappiamo poco e nulla: è l’assunto di un film in cui il coinvolgimento sensoriale – i suoni, le luci, i colori, il dinamismo dell’azione – surclassa quello emotivo. Un film concepito come un tenebroso baccanale, in cui la dimensione dionisiaca sconvolgerà qualunque ipotesi di razionalità e di ordine, fino al rovesciamento (letterale) di questo microcosmo circoscritto, teatro di un rituale orgiastico destinato a culminare in un inevitabile tributo di sangue.
Gli eccessi sono la parola d’ordine in questo dramma dalle derive ironiche, grottesche, dai sussulti thriller, con il destino di alcuni comprimari che provoca una crescente suspense mista a disagio e diverse sequenze che sono già diventate cult.
Dopo un viaggio istintivo e puramente emotivo come quello proposto da “Climax”, nel momento in cui la musica finisce e le luci si riaccendono, restano nella mente sensazioni, flash e sonorità confuse; ma il rischio è che tutto venga dimenticato in fretta, che di indelebile rimanga poco: perché il cinema di Gaspar Noé è un’esperienza al contempo travolgente e fine a se stessa, ipnotica e respingente, geniale, divertente, estrema e…gratuita.

FABIO BUCCOLINI

“The Place”, cosa vuoi davvero è una questione di dettagli

Dopo il grande successo di “Perfetti sconosciuti” il regista Paolo Genovese cambia totalmente genere e ci regala un’opera atipica per il panorama cinematografico italiano.

The Place

Che cosa saresti disposto a fare per ottenere quello che vuoi?. È più o meno questa la grande sfida con cui “The Place” ti attira. Una domanda forte, che cominci a farti anche tu. E allora pensi: vediamo come la risolvono i personaggi interpretati da quel fortissimo cast.
Paolo Genovese torna alla regia dopo il grande successo di “Perfetti sconosciuti” con “The Place”, un film inquietante che indaga l’animo umano, e quanto ciascuno di noi è disposto a spingersi per raggiungere i propri obiettivi. Genovese sceglie di cimentarsi nuovamente in un film corale, con un cast di attori in cui ciascuno brilla nel proprio ruolo. La storia da cui parte ha un tratto in comune con quella di “Perfetti Sconosciuti”: è tanto semplice quanto geniale. L’enigmatico uomo senza nome interpretato da un solido Valerio Mastandrea, costantemente asserragliato dietro il tavolo sul fondo di un dinner che sembra uscito direttamente dalle strade della Grande Mela, riceve uno dopo l’altro uomini e donne diversissimi tra loro, con la promessa di farne avverare i desideri in cambio dell’esaudimento di compiti il più delle volte riprovevoli.
L’ambientazione circoscritta è quella di un bar di Roma, chiamato appunto The Place, in cui un individuo misterioso siede perennemente a un tavolo in fondo al locale, ricevendo di volta in volta le visite di un disparato gruppo di uomini e donne, desiderosi di ottenere qualcosa da lui. È l’assunto alla base di “The Booth at the End”, serie televisiva americana non troppo nota risalente al 2010, che ha offerto a Genovese e alla sua co-sceneggiatrice Isabella Aguilar il soggetto per questo “The Place”.
L’individuo protagonista di tali incontri non ha un nome e sfodera l’atteggiamento serafico e il pacato distacco di Valerio Mastandrea, che torna a farsi dirigere da Genovese dopo “Perfetti sconosciuti”. Tutti coloro che si presentano al suo cospetto hanno un desiderio da far avverare: che si tratti di banali sogni erotici, di guarigioni miracolose da handicap o malattie o di rapporti da ripristinare (o azzerare). E l’uomo, dopo averli ascoltati imperturbabile prendendo appunti su un voluminoso libro nero, si dichiara disposto a esaudirne le richieste, ma a una condizione: ciascuno di loro, per vedere la propria speranza trasformarsi in realtà, dovrà compiere qualche sorta di misfatto. Pure in questo caso, il valore delle ‘missioni’ assegnate a ciascun comprimario è assai variabile: si passa dall’infrazione di un voto di castità al caso più grave, ovvero un’autentica strage.

THE PLACE 1

Il film di Genovese disturba, perché tocca situazioni nelle quali ciascuno di noi può rimanere coinvolto, ed è impossibile non porsi l’annosa domanda: io cosa arriverei a fare per risolvere una situazione che mi sta a cuore? È questo il nocciolo del racconto di Genovese: esistono limiti inamovibili che regolano il comportamento di ciascuno, o l’asticella dell’etica si sposta a seconda della situazione che si vive?
“The Place” conserva una bellezza cristallina per le tematiche che affronta e per aver portato sullo schermo un cast eccellente dove nessuno sfigura.
Il film rimane dentro per quell’ordinaria umanità che rappresenta, per quella carrellata di volti e richieste difficili da scordare, perché riesce a mostrare con chiarezza che da ogni singola nostra azione ne derivano delle altre, che non sempre si allineano con le intenzioni iniziali.
Genovese sembra voler ricordare che nessuno ci obbliga a fare niente, che abbiamo sempre una seconda strada da percorrere e che le vite sono tutte interconnesse, e ciò che può sembrare banale per una persona, può essere di vitale importanza per un’altra.
“The Place” è il coraggioso tentativo di portare al cinema un’opera prettamente teatrale per far riflettere il pubblico su quello che veramente è importante, ma ricordate…è tutta una questione di dettagli.

FABIO BUCCOLINI