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Assassinio sul Nilo: Agatha Christie secondo Branagh

Dopo la trasposizione di Assassinio sull’Orient Express, Branagh torna sul luogo del delitto; portando l’investigatore sul Nilo e mettendo a nudo il Poirot che tutti conosciamo.

Già dal suo primo adattamento di Poirot Assassinio, Branagh aveva messo in chiaro che non era interessato a portare su schermo un adattamento della fonte principale; Anzi, con un guizzo di vanità non estraneo al piccolo detective belga, ne aveva deformato fisicità e fattezze assumendo in prima persona il ruolo. Il regista e attore inglese ha creato un nuovo Poirot, che sin dal primo film scoprivamo avere un dramma d’amore passato e una presenza magnetica ben differente dalla sua fonte letteraria.

Fango e guerra di trincea. Inizia così Assassinio sul Nilo, in bianco e nero, senza abiti eleganti e alta borghesia in scena, ma con giovani soldati alle prese con una missione suicida. È un prologo straniante ma fondamentale per indirizzare la bussola di un film solo in apparenza molto simile al suo predecessore: perché Assassinio sull’Oriente Express era un film con Poirot, mentre Assassinio sul Nilo è un film su Poirot.

Il film infatti si concentra a sorpresa sul passato e sulla psiche del protagonista più che sugli omicidi che cominciano a tingere il Nilo di rosso sangue. Branagh ci consegna il ritratto di un uomo lontano dalla capricciosa e vanesia serenità del passato, più vicino alle inquietudini degli ultimi romanzi della Christie. Un cambio di rotta rispetto al primo capitolo con una spiegazione semplice. Nessun mistero in questo caso. È come se l’ambientazione avesse influenzato lo spirito di tutto il film, con il caldo afoso dell’Egitto ad accendere i fuochi dei tormenti. Laddove Assassinio sull’Orient Express esaltava il rigido metodo deduttivo di Poirot con una storia razionale, ambientata tra i ghiacci, Assassinio sul Nilo è un film più rovente, caldo e passionale. Bollente come il triangolo amoroso al centro della trama.

Attraverso un gioco di specchi stuzzicante, se non addirittura ammirevole, Branagh è partito rispettosamente da Agatha Christie per arrivare al suo amato, imprescindibile William Shakespeare; il suo film pian piano si copre d’un velo malinconico che conduce a un finale emozionante, perfetta chiusura per una storia che vuole rappresentare l’amore prima di tutto come mancanza.

Assassinio sul Nilo, nella sua anima, è un film sorprendentemente e dolorosamente romantico. Nonostante tutto, questa pellicola non è priva di sbavature in particolar modo nella scelta di un cast meno omogeneo rispetto a quello di Assassinio sull’Orient Express. Non tutti gli attori funzionano a dovere. Meritano invece di essere segnalate la presenza scenica e l’avvenenza di Sophie Okonedo, l’unica oltre ovviamente a Branagh a lasciare il suo marchio sul film.

Rispetto al primo film questa operazione condotta da Branagh si dimostra più coraggiosa, più incisiva. È destinata a non piacere a tutti e soprattutto ai puristi di genere, ma la volontà di girare in pellicola 70 millimetri, la decisione di abbandonare il tono allegro dell’originale per immergersi in un’atmosfera post bellica e plumbea, testimoniano che, pur essendo un compito, il regista lo assolve prendendosi qualche rischio e regalando un buono spettacolo al suo pubblico.

Ci regala un’opera, certo, non priva di pecche ma sicuramente gradevole e in grado di affascinare.

In attesa di nuovi capitoli, ringraziamo Branagh per aver dato una rotta più incisiva al personaggio.

Freaks out: finalmente in Italia qualcuno che rinnova il cinema

Gabriele Mainetti, alla sua seconda regia dopo l’acclamato Lo chiamavano Jeeg Robot, riesce a reinventare il cinema italiano tra neorealismo e modernità

Presentato in Concorso alla 78a Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Freaks out e l’opera seconda di Gabriele Mainetti, non certo un nome sconosciuto. Con Lo Chiamavano Jeeg Robot è riuscito a realizzare un vero e proprio cult; un cinecomic  nostrano ambientato in una Roma degradata con un villain già iconico come lo Zingaro. Con Freaks Out ha voluto alzare l’asticella e con un budget di 12 milioni ha realizzato un altro lungometraggio al di fuori del convenzionale che vede come ambientazione la Seconda Guerra Mondiale.

La trama sembra estremamente esile ma al suo interno contiene un universo, con le sue sotto trame che alla fine collimano in un unico grande racconto: “Nella Roma del 1943, quattro amici lavorano in un circo gestito da Israel, che sparisce nel nulla. Senza il loro capo a guidarli, Matilde, Cencio, Fulvio e Mario si sentono abbandonati e cercano una via di fuga dalla città occupata dai nazisti”.

Il viaggio della ricerca e della fuga dei freaks è una guerra personale all’interno di una guerra mondiale. Un percorso di sopravvivenza che li porterà al di fuori della loro comfort zone circense, rendendoli protagonisti di un’avventura che li separerà e li farà incontrare con personaggi altrettanto unici e folli, per poi ritrovarsi di nuovo, riscoprendosi cambiati irrevocabilmente.

Ed è proprio questa la bellezza di Freaks Out, perché, i quattro freaks sono degli estranei che si trovano a vivere in una società che li vede solo come “giocattoli” da deridere, perché non conformi a ciò che viene considerato “normale”. Che poi, questa normalità, in che cosa consiste? Qual è il criterio che decide chi è normale e chi no? Ogni personaggio ha un passato, un presente ed un futuro, donando allo spettacolo molteplici sottotrame che si vanno a sviluppare all’interno del racconto, in modo da far apparire la storia centrale reale e credibile allo stesso tempo, coinvolgendo lo spettatore e non lasciandolo indietro alle vicende passivamente.

Le ambizioni del regista si vedono tutte fino in fondo: il lavoro, specialmente sul piano tecnico e magistrale. Mainetti è meticoloso, sfrutta tutto il suo budget (anche con il rischio di sforarlo altamente) e nelle sequenze si vede tutto il suo perfezionismo dove ogni dettaglio è curato.

Questo tipo di cinema in Italia non si fa, è come se fosse un taboo; lui invece osa, non si preoccupa delle critiche e imbastisce un set mastodontico proiettato ad un cinema, quello del futuro, che si spera nel nostro paese prima o poi si realizzi.

Le citazioni di Freaks Out sono veramente molteplici, dal cinema d’autore a quello popolare. Impossibile, già dalle prime scene, non farsi tornare alla mente il rimaneggiamento della Storia che avviene in Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino.

All’interno della pellicola è inoltre presente un elemento che ha permesso al regista di rendere omaggio al contemporaneo e alla cultura pop. Infatti Gabriele Mainetti si è occupato personalmente della colonna sonora, collaborando con Michele Braga, per regalarci musiche mozzafiato che spaziano dall’atmosfera fiabesca a quella più cupa. All’interno del film, sono presenti dei rifacimenti al pianoforte di In The Hall of The Mountain King di Edvard Grieg, Creep dei Radiohead e Sweet Child O’ Mine dei Guns ‘n Roses.

Probabilmente non è il film più bello del nostro cinema, ma segna uno spartiacque decisivo: il livello e le dimensioni della sua produzione sono unici nel panorama cinematografico italiano recente. Mainetti ha la capacità di omaggiare il grande cinema. Sicuramente meritava di essere scelto dall’Italia per la corsa agli Oscar 2022.

FABIO BUCCOLINI

Halloween kills: come dissacrare la figura di Michael Myers

Michael torna alla carica in questo nuovo, sfuocato capitolo dove la parola d’ordine è noia.

Nel 2018 David Gordon Green rilancia il mito di Michael Myers con un reboot/sequel in grado di conquistare la critica. Il successo fu enorme, dato soprattutto dal ritorno di Jamie Lee Curtis nel personaggio dell’iconica Laurie Strode, acerrima rivale del killer. Fece cosi tanto clamore che ad un certo punto, quel “piccolo” reboot si trasformo in una nuova trilogia. Halloween kills è appunto il secondo capitolo di quest’ultima che vorrebbe elevare Michael ad un’altra dimensione ma riesce solo a rovinare un’icona immortale creata dalla mente geniale di John Carpenter.

Il film riparte dal finale del precedente. Laurie Strode, dopo aver dato fuoco a casa sua per uccidere Michael Myers, viene portata di corsa all’ospedale con ferite mortali, convinta di aver finalmente ucciso il suo tormentatore di una vita, insieme a sua figlia Karen e alla nipote Allyson.

Purtroppo, però, Michael riesce a liberarsi dalla trappola e ricomincia a uccidere, seminando morte mentre Laurie lotta tra la vita e la morte. Mentre la donna cerca di guarire, gli abitanti di Haddonfield si ribellano contro l’inarrestabile mostro. Così un gruppo di sopravvissuti al primo massacro di Michael decidono di prendere in mano la situazione, formando una folla di “vigilanti” per cacciare Michael una volta per tutte.

Presentato fuori concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, il film profana il mito creato da John Carpenter, limitandosi ad allungare un brodo che hanno cucinato come ricca trilogia. Se nel capolavoro originale non si vedeva praticamente mai del sangue, perché la paura emergeva dall’ombra, David Gordon Green si diverte a seminare morti ammazzati, con Michael semplicemente chiamato a fare una strage.

Cadavere dopo cadavere, la sceneggiatura si limita ad immaginare omicidi differenti ed efferati, mentre attorno al mostro l’insensatezza regna sovrana.

Non c’è più la ferocia che ha caratterizzato il personaggio per anni, ormai è diventato un killer pianificatore, sembra che alcuni omicidi siano preparati con una lucidità che non ha mai fatto parte di lui. Ad un certo punto ci si domanda, ma siamo andati a vedere Halloween o un documentario su Ted Bundy?

Un sequel fuori controllo nella scrittura, a tratti involontariamente comico ed esageratamente slasher.  La famigerata “essenza del male” che Myers rappresenta perfettamente da oltre 40 anni assume in Kills i contorni di un frullatore di carne umana, che molto semplicemente fa a pezzi chiunque osi trovarsi sulla sua strada.

Un capitolo due stanco e privo di idee che compie il suo più grande errore nel lasciare in panchina una Jamie Lee Curtis, che di fatto è una figura secondaria all’interno di un titolo che trasforma Michael Myers in una sorta di uomo nero immortale.

Il film del 2018 è stata un’operazione estremamente intelligente e aveva sapientemente fatto rinascere il legame tra lo psicopatico e l’ex babysitter; qui inspiegabilmente la cabina di sceneggiatura spegne tutto ciò e confeziona solamente uno slasher dove a regnare è solo ed esclusivamente il sangue. Se non si fosse chiamato Halloween questo titolo sarebbe tranquillamente passato in sordina.

Si rimpiange a grande voce la versione iper-violenta e più umana di Rob Zombie.

FABIO BUCCOLINI

OcchioPinocchio, il film più sottovalutato di Francesco Nuti

OcchioPinocchio, il film più sottovalutato di Francesco Nuti

“The gentlemen”. Il ritorno alle origini di Guy Ritchie

Dopo aver svincolato la sua vera vena artistica con prodotti meramente commerciali come il rifacimento live action di “Aladdin”, Ritchie torna alle sue origini e confeziona un prodotto in vero stile “Rocknrolla”.

C’è Londra, ci sono i gangster, gli intrecci criminali, le lotte per il potere e quelle per il denaro. C’è la violenza, c’è l’ironia, ci sono i dialoghi, c’è sempre qualcosa o qualcuno che sembra o dice una cosa e che in realtà è o ne sta dicendo un’altra. C’è tutto quello che ha creato il fenomeno Guy Ritchie. C’è il ritorno del regista allo stile di quei film che ne hanno decretato successo e popolarità, “Lock & Stock” e “Snatch”, prima di tentare con alterne fortune anche altre strade, dai film fatti per amore (“Travolti dal destino”) a quelli fatti per danaro (“Aladdin”).

Questa la sinossi: Mickey Pearson ha il monopolio del mercato della droga londinese. La sua intenzione di lasciare il giro e vendere ogni cosa provoca una serie di eventi e situazioni decisamente imprevedibili.

Il ritorno alla regia di Guy Ritchie è nel segno delle proprie origini filmiche e il riuscitissimo “The Gentlemen” ne è certamente prova. Il regista britannico scrive e dirige questo “gangster movie” del 2020 dove niente è fuori posto. Con una narrazione che ha qualcosa da spartire con il concetto di metacinema, intanto, assistiamo ad una trama non originale ma accattivante ed estremamente scorrevole. La sinossi riserva comunque le sue sorprese, specialmente nella parte finale, e non si risparmia in situazioni dove convivono stile, humour nero e sequenze d’azione brevi ma intense. A fare gran parte del lavoro, tuttavia, ci pensa tutto il grande cast riunito per l’operazione. Ogni componente, in misura maggiore o minore, si rivela perfetto per il suo ruolo e contribuisce a creare l’atmosfera adatta al tipo di film in questione. Corredano il tutto una bella colonna sonora e un comparto tecnico di tutto rispetto. In definitiva “The Gentlemen” è cinema di Guy Ritchie allo stato puro, una pellicola imperdibile ampiamente promossa, specialmente se apprezzate il genere.

Insomma, il mash-up di Guy Ritchie colpisce nel segno grazie a quello che da sempre lo ha reso uno dei cineasti di maggior interesse. Dialoghi serrati e diversi piani di narrazione che si mescolano a un montaggio frenetico ma mai isterico. “The Gentlemen” è il risultato di un lavoro sottile che, per primo, diverte chi lo fa e porta questo divertimento agli occhi di tutti. Un esercizio di stile che non ha nulla di nuovo, ma che ci riporta finalmente a terreni conosciuti che non smetteremo mai di apprezzare.

Se ne apprezzano la precisione nella costruzione, alcune idee originali in sceneggiatura e le buone interpretazioni. Una delle idee più originali è nel finale, che suggerisce una domanda: ci sarà un sequel? Indubbiamente i personaggi sono tanti e sono diversi quelli che potrebbero trovare uno sviluppo in capitoli successivi, tanto che, notizia di un paio di mesi fa, la Miramax sta già lavorando per trarne una serie televisiva, sempre diretta e scritta da Guy Ritchie. Intanto, “The Gentlemen” resta un gangster movie ben orchestrato, adatto a chi ama lo humour inglese, l’azione e il cinema nella sua artigianalità. Bentornato Ritchie.

FABIO BUCCOLINI

“La babysitter”, L’esplosione visiva del puro trash anni ottanta

Mcg firma per Netflix una commedia dell’orrore fracassona, divertente che omaggia a piene mani gli anni ottanta.

Con “La Babysitter”, McG cavalca la moda e le tipiche atmosfere del revival degli anni ottanta, mettendo in scena una commedia nera dalle tinte splatter, che richiama esplicitamente vari filoni dell’epoca, come l’home invasion, gli slasher movie e le più pruriginose horror comedy, condendo il tutto con un sempreverde citazionismo delle pietre miliari della cultura pop e nerd. Il risultato è un film furbo, ammiccante e non sempre centrato, che però con la sua imprevedibilità e la sua intrinseca mutevolezza riesce a coinvolgere e intrattenere per tutta la sua durata, azzeccando anche qualche notevole momento gore. Insomma il suo prodotto migliore da anni.

Questa la sinossi del film: “Il dodicenne Cole scopre che la sua amata bambinaia appartiene a una associazione di adolescenti dediti ad un culto satanico. Il ragazzino deve mettere da parte la sua cotta e sfuggire prima di essere sacrificato”.

McG torna dopo tre anni dietro la macchina da presa e confeziona la sua opera migliore dai tempi di “Charlie’s angels”. Brilla in questo palese B-Movie dove umorismo politicamente scorretto, litri di sangue e omaggi ai migliori slasher anni ottanta fanno di questa opera una piccola chicca che sicuramente verrà apprezzata di più nel corso degli anni. Tutto ciò condito dal fisico scultoreo dell’ottima attrice Samara Weaving (da tenere assolutamente d’occhio per il futuro) che, come ogni film trash che si rispetti, sollecita la curiosità di tutti gli ometti che iniziano la visione.

Il vero segreto per poter apprezzare fino in fondo un prodotto come “La Babysitter” si racchiude nel non prendere mai realmente sul serio ciò che sta accadendo sullo schermo, acquisendo piena coscienza di come la horror comedy di McG sia fortemente derivativa e infarcita fino al midollo di gustose (e chiaramente volute) citazioni all’ormai onnipresente immaginario di genere anni ottanta e il tutto adottando un meccanismo dissacratorio sul modello degli Scary Movie in cui il mito viene integralmente spogliato della propria aura di primigenia seriosità.

Nell’incerto e altalenante recente percorso delle produzioni cinematografiche originali Netflix, La Babysitter si rivela un riuscito esperimento di commistione fra generi, capace, pur senza la minima pretesa autoriale e limitando al minimo l’introspezione psicologica dei personaggi, di riportare alla luce con originalità e brillantezza delle atmosfere e un umorismo decisamente rari nel panorama horror odierno.

Attraverso una vera e propria forma di splatter “creativo” che a tratti rasenta quasi il pulp tarantiniano,“La  babysitter” non sarà certamente un capolavoro, ma non c’è dubbio che le carte in regola per un sano e spassoso divertimento di consumo le possiede davvero tutte.

FABIO BUCCOLINI

“Noi – Us”, la terrificante critica sociale di Jordan Peele

Dopo essere stato acclamato da critica e pubblico per il suo “Scappa – Get out” Peele torna alla carica con un’opera all’apparenza scontata ma con un messaggio sociale devastante.

“Us”, che esce in Italia con il titolo “Noi”, non è una scelta casuale. La famiglia di cui si narra nel film rappresenta un semplice pretesto per discutere gli emarginati, gli esclusi, tutte quelle minoranze sociali che, per qualche ragione, vengono dimenticate, lasciate a marcire sul fondo del mondo. L’idea è tanto semplice quanto straordinaria; Peele cala l’asso, espandendo la sua idea di cinema e rendendola incredibilmente più matura. Dissemina indizi e riferimenti, gioca con la narrazione di superficie, ma è nel/dal sottosuolo che costruisce con perfezione unica le geometrie di un incubo dal quale sarà impossibile fuggire.

La sinossi del film è estremamente semplice e scontata, come la narrazione di superficie di cui parlavo pocanzi: Accompagnata dal marito e dai figli, Adelaide torna nella casa sulla spiaggia dove è cresciuta. Quattro sconosciuti mascherati, però, bussano alla loro porta, dando vita ad un incubo inimmaginabile.

La sceneggiatura in “Noi” è persino più ambiziosa e contorta di quella di Get Out, già di per sé ottima. La premessa qui è intrigante, suggestiva, inusuale. Gli horror hanno abituato lo spettatore all’idea del “cattivo”, dell’entità malvagia da sconfiggere o dalla quale fuggire. In questo caso il cattivo siamo invece noi stessi, ovvero nello specifico le proiezioni malvagie dei protagonisti, le loro nemesi.

La poetica di Peele è ormai chiara, e la sua voglia di raccontare le minoranze, sfruttando la sua caparbia volontà di utilizzare solo attori afroamericani come protagonisti, non fa che accentuare una sorta di “razzismo contrario” che, se da una parte rischia di far deflagrare l’opinione pubblica su se stessa nel corso del tempo, è funzionale alla cattiveria insita nella scrittura di queste opere.

In “Noi” c’è tutto: tensione, spavento, atmosfera, storia, ironia, sangue, emozioni. Forse non sarà l’horror tutto jumpscare e urla che ormai il mercato propone incessantemente (e che il pubblico invoca a grande richiesta) ma parliamo in ogni caso di una pellicola che merita solo elogi, così come il suo regista ed i suoi attori. Un’inquietante ed avvincente favola dark dell’orrore dove, per restare uniti e salvarsi, non bisogna più scappare via da loro, ma da noi stessi.

La densa mole di spunti non appesantisce il racconto, che nella calibrata alternanza di scene di azione e momenti di tensione guadagna un equilibrio dinamico e coinvolgente. Non mancano per la verità alcune incongruenze narrative, che nel filone horror sono quasi un difetto congenito. Il parziale rigetto della verosimiglianza è però consapevole; “Noi” si appella piuttosto alla simbolicità dell’inconscio, per il quale le coincidenze sono manifestazioni coerenti di una sincronicità sottesa e l’estraneità è una distorsione psicologica del familiare. Si spiega in tal modo la presenza all’interno del testo filmico di un vasto alfabeto simbolico di matrice pop. A questo proposito merita particolare attenzione la t-shirt in cui campeggia il Michael Jackson di “Thriller”, umano e zombie, uomo e donna, nero e bianco, definito da Peele stesso “santo patrono dell’ambiguità”.

Le risate e gli stilemi dell’horror raccontano semplicemente la capacità di Peele di divertirsi, fondata sul suo background artistico. Ciò non toglie che le tematiche affrontate siano attuali e potenti, in grado di far riflettere e senza troppi mezzi termini. Per questo, per una volta, la chiara spiegazione finale, che non lascia adito ad interpretazioni, è perfetta.

Vi lascio con l’idea di base del film, con la quale Jordan Peele parla agli spettatori e…all’umanità intera:

Geremia 11:11: “Perciò, così parla l’Eterno: ecco, io faccio venir su loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò.”

A noi l’arduo compito di riflettere, riflettere…riflettere.

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “Underground” il capolavoro di Emir Kusturica

Kusturica epico e surreale ci accompagna in questa favola balcanica che si dipana dai tortuosi meandri della seconda guerra mondiale fino alla guerra etnica tra serbi e bosniaci. Palma d’oro al festival di Cannes 1995.

Parlare di “Underground” del serbo Kusturica è un’impresa pressocché difficile: è un film immenso. Quasi tre ore di durata a coronare la storia rimossa di un paese senza più storia, dove si mescolano registri, personaggi, immaginari.

Un’opera, premiata con la palma d’oro al festival di Cannes 1995, insieme tragica e coloratissima dove Kusturica ha il tocco della leggerezza: come pochi altri riesce a raccontare l’orrore della guerra e il dramma della morte con eccezionali cadenze da commedia (sì, in alcuni punti fa pure sorridere e ridere) e anche dove si rischia il pianto (nel finale), “Underground” nega ogni pietà e compassione inquadrando i suoi personaggi con impeto quasi surrealista.

“Underground” nasce come un affresco corale in chiave grottesca su mezzo secolo di storia jugoslava. Dalla guerra alla guerra, dall’invasione nazista di Belgrado del 1941 alla polveriera degli anni 90. E’ il manifesto dell’estetica caotica di Kusturica, l’apoteosi della sua debordante fantasia. Il film gronda di immagini, e la più forte è proprio quella del titolo; “La Jugoslavia è una cantina” – ci dice Kusturica, rievocando la caverna di Platone, dove gli schiavi vedono solo le ombre deformate della verità. Ma underground è anche sinonimo delle caves dove studenti, intellettuali e disertori resistevano a ritmo di rock al regime titoista, così come dei rifugi dove la popolazione di Sarajevo cercava scampo al furore dell’assedio.

Questa la sinossi del film: “Nel 1941, dopo il primo raid aereo tedesco su Belgrado, comincia l’ascesa del compagno Marko. Lui e il suo amico Blacky convincono il loro clan a rifugiarsi in un sotterraneo e a fabbricare armi e altri prodotti per il mercato nero.”

Scorbutico e politicamente scorretto, Kusturica è in realtà uno dei registi più vezzeggiati in Europa, dove ha fatto incetta di premi (Leone d’oro a Venezia per “Ti ricordi di Dolly Bell?”, Palma d’oro a Cannes per “Papà è in viaggio d’affari”). Gli mancava ancora l’affondo per conquistarsi definitivamente un posto tra i maestri della cinematografia; per farlo, torna nelle viscere della sua Jugoslavia.

Regia, scrittura e fotografia sono terribilmente evocative e artistiche, incredibilmente funzionali alla storia da raccontare, senza troppi fronzoli. Persino le tre ore (che scorrono tutte d’un fiato: impossibile annoiarsi, a meno che non lo si guardi distrattamente) sono necessarie per mostrare, conoscere e amare questa “grottesca commedia dell’umanità”. Sullo sfondo una guerra invisibile distrugge case, corpi e ricordi; i personaggi (estremamente sopra le righe) vivono, inconsapevolmente sfruttati, in un bunker sotterraneo fino al 1961 quando, nel 1992, non subiscono una nuova battaglia. Alcuni nascono, altri muoiono. Ci si ama, ci si odia, ci si tradisce, ci si sposa, si fa festa. Il paradossale e coinvolgente percorso di queste anime è cadenzato da un’allegra colonna sonora gitana e man mano che scorrono i minuti, si passa ben presto ad un’insostenibile umanità.

Opera cruciale, immancabile nella filmografia di un cinefilo che si rispetti. Un film d’autore, certo, ma fruibile e apprezzabile da tutti: rimane impresso e invoglia una seconda visione.

“Underground” resta un’opera epocale, che ha segnato uno spartiacque nella stessa cultura dei Balcani.

Un film che è un necrologio, un’atroce parabola, ma anche un inno alla vitalità sfrenata degli “slavi del Sud”.

“La guerra è guerra quando due fratelli si uccidono a vicenda.”

FABIO BUCCOLINI

I film di Natale. “S.O.S. fantasmi” il cantico di Richard Donner

Liberamente ispirato al “Canto di Natale” di Dickens, Donner confeziona un film perfetto tra attualità e fantasia con un Bill Murray in stato di grazia.

Un grande classico come “Il Canto di Natale” di Charles Dickens, diventa un meta-racconto tra letteratura, televisione e cinema. “S.O.S Fantasmi” è uno di quei film immancabili sotto l’albero; vuoi perché rielabora una popolarissima favola sul Natale trasformandola in un divertissement grottesco e satirico, vuoi perché è uno di quei film che i fan di Bill Murray non possono che vedere e rivedere ogni anno.

È Natale, abbassiamo qualsiasi difesa ideologica e resistenza agli improbabili happy ending, e ci lasciamo trasportare al calduccio, concedendoci qualche risatina, e dosi di speranza. Ciò che questo film ci regala in più, è la nota grottesca, che lo distingue da tanti altri casi cinematografici del filone.

Questa è la trama: “Un cinico produttore televisivo, il cui comportamento lo ha allontato da tutti coloro che gli volevano bene, sta preparando una trasmissione tratta dal ‘Racconto di Natale’ di Dickens. Tre fantasmi si presentano al suo cospetto per farlo riflettere sulla sua vita.”

Tanta attenzione su questo film ci fu per la presenza di Bill Murray. “S.O.S. Fantasmi” segnava il ritorno sulle scene dell’attore dopo un lungo periodo di inattività. A seguito del successo di Ghostbusters Murray tentò di calarsi in un ruolo drammatico ne “Il filo del rasoio” di John Byrum, fallendo però miseramente. A quel punto l’attore entrò in crisi esistenziale e si ritirò a studiare storia e filosofia alla Sorbona di Parigi. Solo 4 anni dopo tornò a recitare proprio per questo film. Per questa ragione Murray puntò moltissimo sulla pellicola. Una curiosità è proprio che sul set l’attore si rivelò iperattivo e il regista Richard Donner (che girò il film fra Arma Letale e il sequel Arma Letale II) in un’intervista disse che dirigerlo fu come “per un vigile dirigere il traffico fra 42esima strada e Broadway, mentre i semafori sono spenti”.

Senza troppe pretese, il film è una frizzante e piacevole commediola natalizia, con un Murray mattatore a briglia sciolta, che si lascia sfuggire più di una battuta non necessariamente per famiglie. Anche se grossolani, sono divertenti gli effetti speciali con cui vengono rappresentati gli spettri, specialmente il macabro cadavere in decomposizione dell’amico. Piccolo ruolo per Robert Mitchum e lieto fine prevedibile, trattandosi di una storia natalizia. Ingenuo ma anche innocuo, da rivedere con la famiglia durante le feste. Dirige Richard Donner, tra gli immancabili della commedia popolare anni Ottanta.

“A Natale puoi, fare quello che non puoi fare mai, canta il famoso spot natalizio.”

Puoi addirittura cambiare totalmente personalità e magicamente diventare un benefattore ispirato dai più grandi valori etici e morali.

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “Paura e delirio a Las Vegas”, l’on the road allucinogeno di Terry Gilliam

Terry Gilliam e due dei più talentuosi attori della loro generazione; un irriconoscibile Johnny Depp, reso calvo e con il volto costantemente deformato, e Benicio del Toro, ingrassato appositamente di circa 20 Kg, sono la ricetta di un film diventato cult con il passare del tempo, essendo stato un flop d’incassi all’uscita.

“Paura e delirio a Las Vegas” è ispirato al romanzo Fear and Loathing in Las Vegas, un racconto autobiografico del giornalista e scrittore Hunter S. Thompson, basato sulle sue scorribande a Sin City in compagnia del proprio avvocato.

Fu lo stesso regista a universalizzare il senso del romanzo di Thompson. Quando “Paura e delirio a Las Vegas” vede la luce nel 1998, provocando reazioni a dir poco divise in quel di Cannes, per poi essere quasi totalmente massacrato dalla critica in patria; l’Europa, come d’abitudine con il regista, si dimostrerà invece più clemente. Rimettere mano agli eccessi e alle schizofrenie di un’epoca irripetibile. Il Gilliam che aveva attraversato l’oceano per unirsi ai folli Monty Phyton, segnando una cesura netta con la propria patria, torna a Hollywood quando le sirene reazionarie già iniziano a fare capolino, e cerca di mettere a soqquadro un sistema solido, stratificato, eppure sempre più prossimo alla mediocrità produttiva.

Quest’opera è stata caratterizzata da una genesi tormentosa e oltremodo lunga, a causa dello scarso budget di produzione, del continuo passaggio di mano dello script e della a lungo infruttuosa ricerca del cast adatto. Dopo aver ricevuto il rifiuto di numerose case di produzione, essere stata nelle mani di Alex Cox e aver avuto (quasi ufficialmente) coppie di attori protagonisti e avendole perse per i più disparati motivi, sembrava non avere futuro. Essa finalmente prese vita quando fu proposta a Gilliam, il quale riscrisse quasi per intero la sceneggiatura e i due ruoli principali vennero affidati a Johnny Depp e Benicio del Toro.

Ambientato negli anni ’70 negli Stati Uniti, questo road movie psichedelico ha l’ambizione di riflettere intorno alla chimera che i giovani hanno rincorso durante la grande ondata di LSD a San Francisco, periodo da cui sono nati gli artisti della beat generation, in cui i ragazzi credevano di poter cambiare il mondo con la sola forza dell’amore e della pace. Utopia infrantasi nel giro di pochi anni.

Il film è costruito con maestria: il filo narrativo non è fortissimo, ma insieme alla fotografia e alle inquadrature lisergiche serve a enfatizzare il vero ‘viaggio’, quello mentale, a base di droghe psicotrope, non quello finalizzato a correre sul luogo degli eventi per immortalarli con la propria penna. Quello è solo un pretesto per mostrare un percorso diverso, parallelo a quello triste e ordinario di coloro che sperano di cavalcare trionfanti il Sogno Americano. Un viaggio a base di mescalina, cocaina, metedrina, LSD, oppio, etere puro, che ha lo scopo non solo di ritrovare quell’apice che i giovani della seconda metà degli anni ’60 hanno vissuto, ma di scoprire in fondo qual è il vero senso della vita, attraverso l’illusoria espansione di coscienza promossa da Timothy Leary in quegli anni.

Terry Gilliam tenta un’impresa realizzata pochissime volte prima di lui a livelli così alti (a memoria ricordiamo solo Il pasto nudo di David Cronenberg), cioè immergersi completamente nella mente di due persone in preda al delirio di droghe e alcool, mostrandoci con ardite scelte registiche e una perfetta computer grafica le loro allucinazioni, la distorsione della loro realtà e le inevitabili conseguenze sui loro comportamenti.

Quest’opera vuole descrivere un’epoca e una condizione sociale e personale. Non si deve credere che l’intelligenza e la conseguente lettura di un mondo imperfetto e di una società a pezzi conduca l’individuo a danneggiarsi e stordirsi. Bisogna scoprire una mentalità errata per poi poterla evitare.

Da vedere, capire e riflettere su ciò che ci viene mostrato.

E come disse il nostro caro Raoul Duke:

“Ecco che se ne va. Uno dei prototipi di Dio, un mutante ad alta potenzialità neanche preso in considerazione per le produzioni di massa. Troppo strano per vivere e troppo raro per morire.”

FABIO BUCCOLINI