Archivio mensile:marzo 2015

Il tempo è scaduto! “Nymphomaniac director’s cut” è arrivata in Italia

L’ultimo capolavoro del regista cult Lars Von Trier” finalmente, dalla giornata di ieri, è uscito in Italia grazie alla collaborazione di Good film e CG home entertainment. La director’s cut è la versione definitiva voluta personalmente dall’autore che già da tempo aveva disconosciuto quella censurata distribuita nei cinema di tutto il mondo ad eccezione della Danimarca dove è stato presentato nella sua interezza.
Director's cut
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Il capolavoro shock di Lars von Trier, “Nymphomaniac”, è ora disponibile nella versione Director’s Cut, senza tagli e con il montaggio voluto dal regista. Questa versione, presentata al Festival di Berlino e al Festival di Venezia,come si poteva immaginare, è arrivata direttamente in home video.
Le edizioni per il mercato italiano sono due. La prima in formato doppio dvd e la seconda in blu-ray alta definizione.
Passiamo alle specifiche tecniche (vi parlo della versione blu-ray perché io ho acquistato questa): la qualità è ottima e ben curata, non al livello di altri prodotti di punta, ma le immagini sono nitide e ben curate anche nelle scene notturne. Per quanto riguarda il reparto audio, è la nota dolente che farà arrabbiare molte persone. L’unico audio presente è quello originale sottotitolato in italiano. Da una parte è la cosa migliore, perché vedere un film in lingua originale fa capire molto di più dell’opera; dall’altra c’è da dire che la sua enorme durata (circa 5 ore e 30 minuti) non aiuta alla visione con sottotitoli, infatti dopo un pò potrebbe risultare stancante.
Parlando degli extra siamo nella sufficienza. La CG non si è sprecata molto, infatti ha preso tutti i contenuti speciali delle versioni censurate e li ha riuniti in un unico supporto.
Ne vale l’acquisto? Assolutamente si, soprattutto per comprendere a pieno il film dei film sull’esperienza umana.
Un capolavoro assoluto.

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “White bird in a blizzard” il lavoro più intimista di Gregg Araki

L’assenza è uno dei temi cinematografici più sfruttati, al copioso numero di autori affascinati da questo tema si aggiunge anche Gregg Araki che firma la sceneggiatura e la regia di “white bird in blizzard”, la sua opera più intimista.
White bird in a blizzard

“White bird in a blizzard”, dopo Mysterious skin”, è forse il film più ambizioso del talentuoso regista cult Gregg Araki (di cui già vi avevo parlato in questo articolo https://fabiobuccolini85.wordpress.com/2014/01/30/gregg-araki-un-genio-ai-limiti-della-follia/). Per cominciare, questa volta dirige un cast formato da grandi nomi: l’astro nascente Shailene Woodley (“Divergent”), la bella e brava Eva Green e, in una parte secondaria, Thomas Jane (“The Punisher”).
Un bel salto in avanti per un autore di titoli underground ma dal grande valore artistico come “Kaboom” e “Doom Generation”.
Come per “Mysterious skin”, qui Araki non scrive di proprio pugno la sceneggiatura, ma adatta l’omonimo romanzo di Laura Kasiscke.
Sono gli anni ottanta e la famiglia Connors se la cava bene. Bella casa, bel quartiere e una figlia, Kat, che sta maturando senza molti problemi. I suoi genitori non si stimano più: non parliamo neanche lontanamente d’amore. La mamma, casalinga perfetta e disperata, cerca i segreti dell’orgasmo nei libri. Il padre, lavoratore indefesso e uomo buono, non guarda più con quegli occhi una moglie ancora splendida e sbava sui giornali porno, in cantina. Finché la donna di casa sparisce. Non dice addio. Iniziano le ricerce e nei due anni successivi, quella Kat che aveva scoperto il sesso e l’amicizia, la trasgressione e lo stordimento, tenterà di fare i conti con il vuoto che le ha lasciato in eredità. Ogni tanto la sogna. Nuda e infreddolita, nella bufea, cosa significherà? Presto la verità verrà a galla…
Quello di “White bird in a blizzard” è un Araki intimista, molto distante dalle sue solite produzioni.
Abbandona le esplosioni pop che hanno contraddistinto i suoi lavori più famosi e gioca con sentimenti più intrinsechi come l’assenza. Racconta un dramma familiare tinto di venature thriller seguendo un filo semi logico preso in prestito dai vecchi noir anni 50. La mano del regista si vede molto, e non lascia da parte del tutto le sue origini da cineasta indie, infatti il film viene raccontato attraverso frequenti flashback (le parti migliori di tutta la pellicola)dove si ritrova in pieno il visionario talento di Araki: la trattenuta concessione agli elementi mystery, rimane espresso attraverso gli sporadici e visionari sogni della sua protagonista.
Chiariamoci, non è un capolavoro e nemmeno il miglior film del registo nippo/americano, ma la sua costruzione ambigua che strizza l’occhio al teen movie, lo rendono esteticamente perfetto.
Grazie alla bellezza di alcune immagini e l’ottima performance di Eva Green, “White Bird in a Blizzard” nonostante una partenza fiacca riesce a trascinare lo spettatore fino al classico colpo di scena finale.
Gregg Araki è sempre Gregg Araki e dandogli in mano anche un prodotto commerciale come questo riesce a imprimergli spessore senza cadere mai nel banale.
Alcuni fan resteranno sbalorditi perché non troveranno tutti i tratti distintivi del cineasta, ma che a dir si voglia Araki è sempre Araki…benvenuti nel suo mondo.

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “All cheerleader die” il revenge movie secondo Lucky McKee

Che Lucky McKee, ad oggi sia uno degli autori più originali del nuovo panorama orrorifico è fuori discussione. I suoi film si distinguono dalla massa per la forte critica sociale. Nonostante “All Cheerleader die” non sia uno dei suoi lavori più riusciti, riesce a mettere in evidenza l’efferatezza delle scuole e cosa si è disposti a fare per restare sempre sulla cresta dell’onda.
All cheerleaders die

Partiamo da un presupposto: alla fine degli anni ’70, negli Stati Uniti, vennero fatti una serie di “B movie” horror ambientati nei college americani con le Cheerleaders come protagoniste. “Satan Cheerleaders-Ragazze soprannaturali” di Greydon Clark è il film culto per eccellenza di questa serie. L’ultimo film di Lucky McKee si ispira a questo genere cinematografico, prendendo spunto dall’ambiente scolastico malato dei college e delle Higth school americane, che creano tra gli adolescenti i miti dei campioni di football e delle ragazze pon pon.
Correva l’anno 2002 e Lucky McKee sorprendeva tutti con un film come “May”, storia tra l’horror e la favola dark, incentrata su una ragazza problematica interpretata da una bellissima Angela Bettis. Ben nove anni dopo con “The Woman” il regista californiano pescava il jolly, tirando fuori un film assolutamente pazzesco, tra i migliori horror degli ultimi anni per atmosfere e ferocia.
Per il ritorno sulla scena McKee decide di riprendere “All Cheerleaders Die” il suo primo lavoro, datato 2001, dargli una bella spolverata e presentarlo in una nuova veste più patinata e accattivante. Proprio come allora al suo fianco c’è Chris Sivertson, co-autore e regista del film, che meno fortuna ha avuto nella sua carriera rispetto al collega-amico.
Il remake, o reboot che dir si voglia, di “Cheerleaders” non segue propriamente le stesse orme dell’originale, pur mantenendone lo spirito: è la storia di Maddy, giovane studentessa che dopo la morte dell’amica Alexis durante un esercizio acrobatico di cheerleading decide di vendicarsi del fidanzato dell’amica, che subito dopo la morte della ragazza si “accompagna” con la bionda e antipatica Tracy.
Amate e invidiate, ma anche odiate e derise. Le cheerleaders sono sempre presenti nelle serie tv e nei film americani con un duplice ruolo. Possono essere delle bastarde che deridono chiunque non rientri nel loro gruppo, oppure nascondono intelligenza e dolcezza e devono combattere contro i pregiudizi di chi non le conosce. I registi Lucky McKee e Chris Siverston provano a dare una scossa a questi stereotipi.
Tra amori lesbici traditi e nuovi, ragazzi gelosi, droga, facili rapporti sessuali, stregonerie… tutto si mischia un po’, fino a quando un brutto incidente stradale coinvolge tutte le cheerleaders e provoca in Leena (l’ex ragazza di Maddy e giovane strega) un dolore talmente grande da creare un sortilegio potentissimo che ridà la vita a tutto il gruppo delle cheerleaders. A questo punto entrano in gioco anche le zombie-cheerleaders.
Avendo visto tutti i lavori di Lucky McKee e soprattutto il bellissimo “May” mi aspettavo qualcosa di più, ma devo ammettere che il prodotto si presenta per quello che è, cioè un b-movie lanciato a tutta velocità da gustarsi tutto d’un fiato.
Come per i film precedenti, anche in questo la tematica sulla violenza alle donne è presente. I ragazzi della squadra di football sono superficiali e violenti, picchiano le ragazze, le usano solo per fini sessuali, sono vigliacchi e immaturi. Le cheerleaders sono in un primo momento dipinte in maniera molto infantile, in seguito appaiono più forti e unite. L’aspetto sociale ed emotivo, come per tutti i film di serie B, molto spesso lascia il posto a quello più divertente e scanzonato e McKee non nasconde l’apparenza di b-movie nostalgico di una certa cinematografia anni 80.
Un Mckee devoto al puro intrattenimento, si diverte e fa divertire. Non un capolavoro che farà spicco nella sua cinematografia, ma sicuramente migliore di tanti altri lavori che circolano al giorno d’oggi.
Da vedere per passare una serata tranquilla senza annoiarsi!!!

FABIO BUCCOLINI

“Vizio di forma” il sogno psichedelico di Paul Thomas Anderson

Anderson porta il libro di Pynchon sullo schermo nella migliore versione possibile. Ne accentua gli elementi sentimentali e dipinge con una forte immaginazione visiva un’epoca psichedelica dove la vita è tutta sesso droga e rock’n’roll e in cui uno strambo detective, perennemente fatto (sembra il dott. Gonzo di “Paura e delirio a Las Vegas”), è impegnato a risolvere un misterioso enigma.
Vizio di forma

Era da molto tempo che Paul Thomas Anderson voleva portare al cinema un’opera letteraria di Thomas Pynchon. Dopo vari tentativi aveva accantonato il progetto perché le sue opere sono troppo complesse per poter essere rappresentate in un film. Dopo il capolavoro “The manster” riprende in mano quest’idea e decide di portare al cinema Vizio di forma, l’unica opera, a detta del regista, abbastanza lineare da poter essere rappresentata.
Ecco a voi una breve sintesi della trama: Al centro della storia un investigatore privato, Doc Sportello, che esercita il suo lavoro nella Los Angeles degli anni Settanta. Una visita inattesa della sua ex lo coinvolge in un caso bizzarro dove ogni sorta di personaggi, surfisti, traffichini, tossici, rocker, strozzini, assassini, detective della LAPD, ed un musicista sax che lavora in incognito sembrano essere implicati. Se non bastasse anche una misteriosa entità conosciuta come Golden Fang, che potrebbe essere solo una manovra per eludere il fisco messa in piedi da alcuni dentisti, sembra avere una parte rilevante in questo intrigo senza fine.
“Vizio di forma” mescola tantissimi generi e cambia registro un’infinità di volte. Torna sui suoi passi, accelera, sterza…in pratica c’è di tutto in questo grande miscuglio.
A tratti geniale e a tratti confuso si ha l’impressione che ci sia troppa carne al fuoco e, ogni tanto, ci si perde nell’epopea pulp di Doc. Non si può classificare come il nuovo “Paura e delirio a Las Vegas” e, nonostante lo spessore di alcune sue parti, non è nemmeno paragonabile a “America oggi”, è una via di mezzo di entrambi che varia molto spesso tra l’uno e l’altro.
Il valore aggiunto che innalza tuta la pellicola è il suo attore protagonista, Joaquin Phoenix. Un attore versatile, capace di interpretare, con lo stesso regista, due ruoli assolutamente opposti ed è riuscito, in entrambi i casi, a donarci performance da brividi. Il resto del cast, che lo accompagna nelle sue interminabili peripezie, è composta da attori di altissimo livello come Josh Brolin, Owen Wilson, Reese Witherspoon, Benicio del Toro, Jena Malone, Johanna Newsom e Martin Short, oltre che dalla splendida Sasha Pieterse.
Non ci sono scene o personaggi superflui in “Vizio di forma”, tutto è connesso in modo imperscrutabile, come se un burattinaio si divertisse a incrociare i fili che muovono le sue marionette. A dare un ordine al caos ci pensa la voce fuori campo di Sortilège, l’amica di Doc, alla cui bocca vengono affidate le parole scritte da Pynchon.
Nell’interezza della pellicola, si intravede benissimo il lampo di genio del regista che, utilizzando una spettacolare fotografia e colori saturi, collega ciascun personaggio con una semplicità fuori dal comune.
In conclusione “Vizio di forma” è un film costellato di sorprese e folgoranti intuizioni, che ci restituisce il gusto e il senso di una visione non prevedibile in puro stile Tarantiniano.
Sicuramente non un film perfetto ma con cui il regista californiano conferma la sua versatilità e la sua capacità di adattarsi ad ogni tipo di genere.
Molto probabilmente dividerà critica e pubblico ma questa è la vera forza della pellicola, cioè la capacità di far parlare di se…nel bene o nel male.
Da vedere e rivedere per comprenderne a pieno il messaggio.

FABIO BUCCOLINI

“Detention – terrore al liceo” una pellicola impazzita che vive di citazioni

Alcuni giorni fa il blog cornfilmpop mi ha lanciato una sfida che ho deciso di raccogliere. Mi aveva incoraggiato a vedere e recensire questa pellicola che lui stesso già aveva fatto e che vi invito a leggere tramite questo link https://cornfilm.wordpress.com/2014/06/13/detention-terrore-al-liceo/. Sono rimasto stupito dalla visione e devo ammettere che non mi sarei mai aspettato un film del genere.
Detention locandina
La locandina del film

Sull’onda di “Scream” nel 2011 esce questa sorta di teen slasher leggero che si contamina pesantemente alla commedia e non ci risparmia qualche stillettata metacinematografica in puro stile craveniano. Il risultato finale è una pellicola super citazionista che, tra qualche rara genialata e diverse cadute nella commedia giovanile riesce a divertire senza troppe pretese.
Detention è un film ultracitazionista che frulla al suo interno tutto, perfetto specchio di un’epoca figlia di Internet. Ci sono riferimenti a Casablanca, La mosca, Scream, Dirty Dancing, uno stile registico con riprese che a tratti richiamano Donnie Darko e una trama che tra viaggi temporali omaggia alla stra-grande il film di Richard Kelly. Segno, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che Donnie è ormai una pellicola entrata nella leggenda e nell’immaginario dei giovani filmmakers di oggi.
Questa è un sinossi della trama o per lo meno la linea guida di una pellicola che è talmente schizzata che sconvolge la storia almeno ogni 30 secondi: Nella scuola fervono i preparativi per il ballo di fine anno, ma un serial killer mascherato che si fa chiamare Cenerantola, come il personaggio di una saga di film horror molto in voga, sta facendo strage di studenti. La sfortunata Riley, Clapton il ragazzo più popolare della scuola, la cheerleader Ione e il nerd Hipster cercano di capire chi si nasconda dietro la maschera di Cenerantola. Dopo una festa privata andata a male, i quattro saranno però costretti dal preside alla detenzione proprio la sera del ballo, insieme ad altri studenti. Nel gruppetto di reclusi comincia a sorgere il sospetto che il killer si nasconda proprio tra loro.
Il film è diretto da Joseph Kahn, qui alla sua seconda prova di regista dopo il debutto con Torque – Circuiti di fuoco (film trascurabile), che si è fatto conoscere per aver diretto videoclip per cantanti e gruppi attuali.
Tanto di cappello a Kahn, dunque, che ce la mette tutta e porta il suo stile visivo in un teen slasher che raramente avrebbe avuto un’impronta così personale.
Detention
Il villain della pellicola

Sulla carta “Detention” è una teen comedy sofisticata, che strizza l’occhio al cinema di John Hughes contaminandolo però con elementi surreali e virate nello splatter. Il mix francamente non funziona del tutto e a conti fatti si ha un gran pasticcio sotto gli occhi. La componente alla Hughes si limita alla delineazione di alcuni personaggi ma per lo più si abbandona a stereotipi di stereotipi che negli ultimi 25 anni abbiamo visto riproposti in tutte le varianti.
L’horror si fa presto marginale: si parodizza “Saw” e si cita (volutamente) “Scream” e affini con un villain dal nome buffo – Cenerantola – ma dal look non male. A volte si punta sullo splatter eccessivo, ma per lo più, tutto l’orrore è pretesto per strappare qualche risata.
Il surrealismo, da una parte è apprezzabile perché denota originalità e fa parte del gioco parodistico (lo sportivo della scuola le cui origini sono raccontate mescolando la genesi di un supereroe e il Seth Brundle del film “La Mosca”), dall’altra incide in modo massiccio nel creare una incredibile confusione narrativa che ad un certo punto fa totalmente perdere le redini del racconto.
Quando cominciano a spuntar fuori viaggi nel tempo e paradossi con personaggi che vivono sia nel passato che nel presente, la logica va a farsi benedire e davvero si perde il filo degli eventi.
Uno leggendo il titolo può immaginare che tutta la pellicola sia incentrata su un gruppo di studenti in detenzione, una sorta di remake ai giorni nostri della mitica pellicola simbolo dei teen movie anni ’80 firmata dal già citato John Hughes. In realtà, la detenzione per i personaggi scatta solo nella parte finale del film, dopo quella che potrebbe essere una lunga introduzione e forse non lo è..forse sì.
“Detention” non è quella schifezza come molta gente potrebbe pensare e una visione la vale, anche solo per tutte le citazioni che lo rendono originale e che faranno innamorare i molti amanti della cinematografia.
In definitiva, un film che farà schifo a gran parte degli spettatori ma che, sorprendentemente, a me è piaciuto per la sua vena surreale, folle e grezza.
Non un capolavoro, anzi dimenticabile, ma che garantisce 90 minuti di svago assoluto.

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “Il mistero del bosco” un piccolo gioiello di Lucky McKee

Mckee continua le proprie incursioni nel genere horror e ci regala un prodotto, sicuramente sconosciuto ai più, che omaggia a tutto tondo Dario Argento.
Il mistero del bosco

Perdere tempo a sottolineare l’impronta lasciata dall’inquietante Dario Argento nella cultura cinematografica è inutile. Senza il delirio stregonesco di “Suspiria”, infatti, lo sceneggiatore David Ross non avrebbe mai avuto modo di costruire lo script de “Il mistero del bosco.
La trama della pellicola riprende molto da “Suspiria”: La Falburn Academy è una prestigiosa scuola femminile nascosta nel cuore della foresta. La nuova studentessa, Heather Fasulo, è molto diversa delle altre: sente delle voci e ha delle terrificanti visioni. Quando le sue compagne cominciano a sparire, Heather capisce che a Falburn niente è come sembra e che la lezione più importante della scuola è una sola: nessuno sfugge al bosco.
Come possiamo vedere, è palese che la maggior parte della pellicola è biologicamente costruita come un grande omaggio/citazione ad Argento: dal collegio only for girls sperduto nei boschi alle tre streghe danzanti , passando ovviamente per la protagonista furbetta e socialmente disadattata.
“Il mistero del bosco” percorre infatti sentieri sicuri, nei quali un horror elegante è sempre in agguato, armato di scelte narrative che lo distanziano quel tanto che basta dal caposaldo argentiano.
Buon lavoro di script e una certa attenzione ai particolari. Attenzione riscontrabile anche in coloriti passaggi di trama che dimostrano come la struttura portante del film sia solida e che, nonostante la palese derivazione, possa anche rilevarsi accattivante.
In “Il mistero del bosco” c’è una totale devozione a un’atmosfera oscura e opprimente, impreziosita da un’ambientazione (gli anni ’60) e relativo tema portante genuinamente sinistri.
Su tutto gigioneggia McKee: la sua regia è precisa, attenta e visionaria, e, complice un efficace lavoro di taglia e cuci in sala di montaggio, ci regala almeno un paio di scene di indimenticabile bellezza. Il regista filma angosce e turbamenti con gradita personalità e grande impatto visivo.
Non siamo di fronte a un film privo di errori che rimarrà negli annali del cinema, ma è un buon prodotto che stupisce anche per una certa originalità.
E’ un buon film, con alcune scene da brivido e un’atmosfera sicuramente di grande suggestione; per alcuni versi verrebbe quasi da paragonarlo a “Suspiria”, con cui si nota una certa somiglianza a livello di contenuti, ma naturalmente il confronto con il capolavoro di Dario Argento è qualitativamente inappropriato. La prima parte della narrazione può risultare un pò lenta, ma poi il film riesce a “prendere quota”, malgrado non ci sia una presenza eccessiva di splatter se non qualche scena gore nel finale.
In conclusione, “Il Mistero del Bosco” può risultare non molto originale nella trama, a volte anche prevedibile, ma è sicuramente un film che si lascia guardare e che fa’ trascorrere il tempo velocemente durante la sua visione senza annoiare mai lo spettatore.
Un film consigliato a tutti gli amanti dell’horror ma specialmente a coloro che amano il grande regista italiano.
Assolutamente da vedere.

FABIO BUCCOLINI

“Martyrs” in arrivo il remake made in USA

Dopo la mia recensione del film di Pascal Laugier, vi annuncio che, dopo una gestazione molto complessa e durata anni, il chiacchierato remake americano è in arrivo. SPOILER a fine articolo.
martyrs
(La prima locandina del film)

Era dal dicembre 2008 che la notizia spopolava in rete. Anche Pascal Laugier, intervistato da Ain’t It Cool News, spiegò che erano in corso alcune trattative con dei produttori americani intenzionati a realizzarne il rifacimento. Poi nei mesi successivi ci furono conferme e smentite che fecero arenare il progetto. Infatti dal maggio 2010, quando fu annunciato che Mark L. Smith aveva terminato la scrittura della sceneggiatura non se ne seppe più niente. Nel 2014 le voci ricominciarono a circolare e la produzione annunciò che Daniel Stamm sarebbe stato il regista del remake. L’autore de “L’ultimo esorcismo” dopo la lettura della sceneggiatura era entusiasta e non vedeva l’ora di cominciare, ma dopo vari diverbi con la produzione decise di abbandonare il progetto perché non consono con la sua idea di realizzazione. Dopo questa notizia, sembrava che questo “Martys” versione americana non si doveva fare poi la svolta all’European Film Market di Berlino. Il remake di “Martyrs” è tornato prepotentemente alla ribalta ed è stato mostrato un primo poster grazie al quale si è reso noto che sarà diretto da Kevin e Michael Goetz, i registi del thriller psicologico Scenic Route. Ma non solo, dopo alcuni giorni si è venuto a sapere che il film non era stato solo rimesso in produzione ma che le riprese sono già finite.
Martyrs 1
(La prima immagine del film)

Le protagoniste di questa nuova versione sono: Troian Bellisario (“Pretty little liars”), Bailey Noble (famosa per aver interpretato Adilyn Bellefleur in “True Blood”), Kate Burton (“Stay”, “Grosso Guaio a Chinatown”) e Blake Robbins (“Rubber”).
La sinossi della pellicola sembra rimasta molto simile a quella originale: Lucie, una ragazzina di 10 anni, fugge dal deposito dove è stata tenuta prigioniera. Viene accolta in un orfanotrofio ma è rimasta profondamente traumatizzata ed è tormentata da incubi notturni. Il suo unico conforto è Anna, una ragazza della sua età. Passati 10 anni gli incubi non sono passati, ma Lucie riesce finalmente a trovare la famiglia che l’ha torturata quando era solo una bambina. Lei e Anna si avvicinano ad una verità sempre più straziante, ritrovandosi intrappolate in un incubo. Se non riescono a fuggire le attende il destino di un martire.
Nonostante tutto ancora non si sa se la sceneggiatura sia rimasta la stessa o se siano state fatte modifiche sostanziali. Restiamo in attesa di nuove informazioni.
Prodotto dalla Blumhouse in collaborazione con la The Safran Company, il nuovo “Martyrs” viene già promosso come “il film dell’orrore definitivo”, anche se, come succede ogni volta, ogni film horror in uscita viene pubblicizzato così.
Si attende primo trailer.
Vi lascio con un interrogativo: Avevamo bisogno di un nuovo remake, soprattutto di una pellicola perfetta così come era?
A voi le risposte.
ATTENZIONE SPOILER:
“La differenza sostanziale è che la versione americana avrebbe mantenuto in vita entrambe le ragazze, mentre nella versione francese una delle due muore molto presto”.

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “Martyrs” il feroce film di Pascal Laugier

Lo amerete o lo odierete, mettetevi il cuore in pace. Non avrete le classiche reazioni da visione dei torture movies odierni. Un pugno allo stomaco senza precedenti ai danni dell’incauto spettatore non preparato spiritualmente. Con queste premesse ci si aspetterebbe di trovarsi davanti l’ennesima cavolata alla Saw o a qualche clone di Hostel. Invece no, “Martyrs” è il classico film che non ti aspetti ed è proprio quando pensi di aver visto tutto ecco che si ricomincia da capo.
Martyrs

Con “Martyrs”, volenti o nolenti, si va oltre. Già la struttura è un segno di distacco rispetto ai “colleghi”, il film di Pascal Laugier non segue una sua linea coerente, e si divide in tre. Tre momenti nettamente staccati, diversi. E, di conseguenza, le reazioni saranno tante durante la pellicola, contrastanti e probabilmente diverse. Si giungerà alla fine segnati, irritati o disgustati. Comunque vada, sorpresi per aver visto qualcosa che si pensava forse diverso.
Ecco la trama: Lucie è scomparsa da un anno, viene ritrovata mentre cammina lungo una strada, in stato catatonico, confusa, non ricorda nulla. La polizia scopre il luogo dove la giovane è stata rinchiusa, un vecchio mattatoio abbandonato. Lucie non porta alcun segno di abuso sessuale o di violenza. Quindici anni dopo, Lucie si trova in una casa in mezzo alla foresta, ha un fucile in mano, si sentono dei colpi…Lucie ha ucciso un uomo.
Non è il film più violento della storia, come qualcuno ha strillato, ma è decisamente uno dei più estremi. Nella pellicola di Pascal Laugier tira un’arietta di angoscia malata e perversa che non ci si poteva aspettare.
“Martyrs” cambia rotta e nei suoi bruschi cambiamenti diventa addirittura disperato perché il suo regista vuole scrivere qualcosa di mai detto prima, ragionando seriamente sul dolore.
Non ci si spaventa molto ma la tensione è elevatissima, sopratutto perchè Laugier ribalta completamente il linguaggio dell’horror contemporaneo per creare qualcosa di nuovo che non è più un horror, nè un thriller nè un film d’exploitation ma tutto quanto insieme, in un calderone infernale difficilmente dimenticabile.
insomma, “Martyrs” è un film che raggiunge a pieno il suo obiettivo: quello di far paura. Paura che filtra tra famiglie apparentemente tranquille e tra sette di sperimentatori mistici. Paura che filtra sempre e comunque dall’uomo.

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “Solo gli amanti sopravvivono” i vampiri secondo Jim Jarmusch

Uscito lo scorso anno e passato quasi inosservato in Italia, La pellicola dell’americano non è il classico film horror ma un inno all’amore contornato da una formidabile colonna sonora.
Solo gli amanti sopravvivono

Cosa dire? E’ Jim Jarmush, uno dei più grandi cineasti indipendenti d’America che non si è mai fatto contaminare dall’olimpo di Hollywood ed ha girato solo ed esclusivamente ciò che riteneva giusto. L’eterno ragazzino, il regista di “Coffee and Cigarettes” e di “Broken Flowers”. Definirlo prolifico sarebbe un’assurdità: Jarmusch non è prolifico. Non è uno di quei registi che sfornano un film all’anno. E va bene così. Se le studia le cose. Lo dimostra il suo modo di fare cinema.
Come in “Broken flowers” anche questa sua ultima creatura si apre su un brano rockabilly, questo a dimostrazione che la poetica di Jarmush non è cambiata con il passare del tempo ma si è perfezionata ed affinata. “solo gli amanti sopravvivono” nonostante riporti tutti i tratti del regista, è anche figlia della sua ultima parte produttiva. Come in “The limits of control” del 2009 (ovviamente inedito in Italia) questo suo ultimo lavoro è una riflessione metafisica sulla morte, sull’attesa e sulla valenza dell’amore. Un film molto diverso da ciò che abbiamo sempre visto nella sua filmografia (ha lasciato delusi gran parte dei suoi fan) ma che finalmente ha chiarito il modo di intendere la settima arte di Jim Jarmusch.
La trama è molto semplice quanto scarna: Adam, un musicista underground, è gravemente depresso per via della piega che la sua vita umana sta prendendo, nonostante i suoi sforzi. Torna allora a far coppia con la sua enigmatica amante, Eve, con la quale ha diviso diversi secoli di amore. Ma il loro idillio è interrotto dall’arrivo della selvaggia e imprevedibile sorella minore di Eve, Ava.
“Solo gli amanti sopravvivono” è un film estetico fatto di silenzi, attese e con atti ripetuti “all’infinito”. Jarmusch personifica questo in creature destinate a ripetere la loro esistenza a causa della loro natura. Vampiri, ma non come ci vengono rappresentati nei classici film horror attualmente sul mercato. Quelli rappresentati dal regista sono creature decadenti e raffinate che stanche della loro esistenza e troppo colte e piene di conoscenza. Due anime eterne unite dal destino e poi separate, che finiranno per rincontrarsi, legate da un amore e una comprensione che vanno al di là del tempo. Quello che riesce a Jarmusch, è restituire al vampiro l’alone decadente e maledettamente romantico strappatogli da un decennio di teen-movie e serial tv nello stile di “Twilight”.
Occhiali da sole, capelli lunghi, pelle diafana. Chitarre che suonano, corde che vengono pizzicate, libri su libri, la storia che viene riscritta e due attori che vanno oltre lo schermo: si siedono accanto allo spettatore e gli raccontano una storia, la loro storia, con tutti i tempi e le pause di cui hanno bisogno. Inventano, creano, studiano e vivono per conto proprio, lontani – eppure vicinissimi – dagli esseri umani e dal loro mondo. Sono piccole divinità che sopravvivono civilmente finchè la sete non si fa sentire. E insieme alla sete c’è la noia, l’altra grande nemica dei vampiri. Una nemica che più di una volta fa pensare al suicidio, un proiettile di legno compresso, pesante, e il gioco è fatto. È la maledizione dell’eternità dopotutto: prima o poi, ci si stufa delle cose e la morte diventa solo un’altra prospettiva da cui vedere il mondo.
Il film è un capolavoro bizzarro, in cui il regista descrive due anime solitarie e desiderose d’amore approcciandosi all’horror gotico con la libertà espressiva con cui aveva affrontato il western (“Dead Man”) e il noir (“Ghost Dog”): uno stile in cui mescola, in perfetta sintonia, umorismo surreale e ironia e violenza. Riconfermando una visione della vita e del cinema ancora fresca e sorprendente.
Ottimamente e malinconicamente interpretato da Tom Hiddleston e Tilda Swinton.
Jim Jarmusch realizza la sua pellicola più personale, utilizzando una colonna sonora praticamente perfetta e composta ed eseguita dalla sua stessa band.
Questa opera personale di Jarmusch rispecchia tutti quanti. Siamo tutti noi a vederci in loro, o perlomeno tutti dovremmo: figure che guardano al futuro nella piena consapevolezza del passato e della sua eredità, che amano e si prendono cura delle cose, della cultura, del mondo, di qualcuno. E noi come loro dovremmo imparare a non cedere allo sconforto, mai, e ad inseguire con determinazione indomita e rock la vita e la sua riaffermazione piena e propositiva.
Una vita nuova, in grado di conservare e progredire, da amare e riempire di amore. Perché solo chi ama, vive.
Insomma ragazzi….benvenuti nel fantastico mondo di Jim Jarmusch.
Capolavoro indiscuso.

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “May” il capolavoro di Lucky McKee

Dopo “The woman”, per la rubrica “i film dimenticati” vi propongo un altro film di Lucky McKee Un film che ingloba in se vari generi cinematografici: commedia sentimentale, splatter e thriller psicologico. Ovviamente in Italia (come sempre più spesso accade) questa pellicola è passata quasi inosservata.
May

Il deserto di relazioni umane che circonda “May” fin da quando è una bambina, è terreno fertile di una sottile follia che crescerà di giorno in giorno, in un orizzonte di disadattamento sociale che il regista Lucky McKee sa fotografare con occhio da maestro e profondità psicologica inusuale per come la maggior parte del pubblico intende l’horror attuale.
May è una ragazza che ha avuto una infanzia difficile, e non conosce il significato dell’amicizia e dell’amore. La sua unica amica è una bambola regalatale dalla madre. Anche con i genitori il rapporto non è dei migliori: nella mente di May riaffiora in certi momenti una scena molto significativa in cui lei è seduta ad assistere indisturbati padre e madre che, non curandosi della presenza della figlia, amoreggiano tranquillamente in modo molto esplicito. May lavora in una clinica veterinaria e vive da sola con la sua amica bambola ed il suo gatto. Lasciata da sola, abbandonata e trascurata dai suoi pochi amici, emarginata da chi la conosce da poco e ne resta sconvolto, May decide di farsi un proprio amico con i pezzi dei cadaveri delle sue vittime.
McKee è capace di accompagnarci, con inusuale lucidità e precisione, lungo il percorso di trasformazione della protagonista, una May che, soprattutto nell’ultima parte del film, sembra un personaggio appena uscito da un racconto di Edgar Allan Poe; una donna maledetta da sempre imbottigliata in una scatola di vetro, come Susan, la bambola di porcellana che la madre le regala quando è ancora bambina.
May è un film horror fino a un certo punto, è un’opera che sa andare molto oltre un genere cinematografico. Si tratta di un’opera che descrive la potenza distruttiva dell’amore frustrato, deprivato, nonché la natura vendicativa dell’amore.
Ad un certo punto lo script iniziale si trasforma, e assume le sembianze della psicosi, della ferocia interiore e della frantumazione in pezzi dell’identità che May cerca di costruirsi passo dopo passo. Da questo punto di vista abbiamo tre film in uno. Nella prima parte (la più marginale) abbiamo un ottimo horror che si distingue dalla massa; Nella parte centrale una commedia sentimentale che fa scoprire allo spettatore il bisogno di affetto della protagonista; per finire, nell’ultima parte, si infrange tutto quello che si è visto e ci troviamo di fronte ad un thriller psicologico di enorme ferocia.
McKee, sulla base di una sceneggiatura basilare ma ottimamente strutturata, è in grado di generare atmosfere in cui il degrado psicotico della ragazza è reso con una grande finezza empatica, che si sposa felicemente con alcune delicate scene gore non aventi alcuna funzione esibitiva, ma che lasciano il segno inconfondibile del perturbante ai nostri occhi.
In conclusione vi consiglio assolutamente di vedere questo May, non perché è un horror estremamente ben curato, ma per ammirare il percorso artistico di Lucky McKee, regista molto impegnato a scandagliare il lato perverso della società e delle relazioni umane.
Capolavoro.

FABIO BUCCOLINI