I film dimenticati. “Lo zio di Brooklyn”, l’esordio alla regia di Ciprì e Maresco

Franco Maresco e Daniele Ciprì, riprendendo il discorso affrontato con Cinico TV filmano un alieno, un uomo attualissimo e volutamente freak. Una bomba che colpisce e devasta l’immaginario e la prassi del cinema italiano. Un capolavoro.

Il primo lungometraggio di Daniele Ciprì e Franco Maresco è un’opera anarchica e frammentata, costellata da gran parte degli attori non professionisti già visti sul piccolo schermo e capace di sorprendere lo spettatore non tanto per la storia, quanto invece per le intuizioni meta-cinematografiche che ricordano continuamente di trovarsi di fronte un pasticcio dissacrante e irriverente. L’immaginario legato alla Sicilia tutto famiglia, processioni, religione, rituali, mafia e virilità (il cast, lunghissimo, non comprende neanche una donna) è piegato all’eccesso e all’iperbole tragicomica: i due autori radicalizzano la propria idea di cinema; fare di necessità virtù coi pochi mezzi a disposizione per privilegiare una messa in scena in cui la desolazione della scenografia sia più presente possibile, ed esasperano la propria visione del mondo rivelando come fonti di ispirazione il neo-realismo pasoliniano e la leggerezza felliniana.

Questa la trama: “Nella periferia palermitana, nell’atmosfera da dopo bomba, è arrivato un misterioso “mammasantissima” americano, che la famiglia Gemelli dovrà ospitare e nascondere. Intorno all’uomo, che non parla mai, non dorme mai, non mangia mai, si muovono una serie di personaggi strani ed inquietanti: maghi, boss mafiosi, nani che intrecciano le loro vite in una commedia cinica”.

Nell’orrido dell’immaginario anni Novanta, nei colori accesi di una televisione trasudante disimpegno, nella vaga e vana resistenza di un cinema sempre meno spigoloso e scomodo, in cui l’impegno si traduce in una collocazione di genere e non più in una postura intellettuale, etica e morale, “Lo zio di Brooklyn” è un atto politico, corrosivo e che non concede appigli né spiragli. Se si accetta la crudezza esibita del film si viene triturati. Se non la si accetta… Si viene triturati lo stesso. Anche per questo il pensiero egemone della cultura italiana, a partire da buona parte della critica, vi si scagliò contro, in un processo preventivo che ebbe poi la sua coda allucinata e allucinante qualche anno più tardi, con “Totò che visse due volte” (quì la recensione https://fabiobuccolini85.wordpress.com/2014/09/09/i-film-dimenticati-toto-che-visse-due-volte-il-film-vietato-a-tutti-che-deve-essere-assolutamente-visto/). Evidentemente un film come questo non s’ha da fare, perché gli stracci che mostra con furore sono a conti fatti i figli più nobili e sinceri del neorealismo. A venticinque anni di distanza dalla sua realizzazione “Lo zio di Brooklyn” è ancora un oggetto non identificato che si disperde nel nulla. La sua polvere la si è nascosta sotto il tappeto, per evitare che gli invitati al banchetto della produzione cinematografica ne avvertano la presenza. Riprendere le fila del discorso è ormai utopico, perché l’Italia è andata avanti standardizzandosi sempre più. Ma la “bombetta”, come la chiama Maresco, può sempre esplodere in faccia ai banchettanti.

“Lo zio di Brooklyn” non fu solo un debutto, bensì il biglietto da visita di due teorici e intellettuali che restituì linfa vitale al dibattito cinematografico e culturale (arrivato all’apice con Totò che visse due volte) e segnò l’inizio di un rigore e un’indipendenza creativa (il rapporto con De Laurentis si interruppe subito dopo le polemiche di stampa e opinione pubblica, in primis siciliana) ancora inalterati.

FABIO BUCCOLINI

Pubblicato il 15 novembre 2020, in Cinema con tag , , , , , , , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.

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