Archivio mensile:gennaio 2014

David Lynch, l’autore della mente

Quando si parla di Lynch, è uno dei rari casi in cui si può parlare di autore completo. Lui a sperimentato tutto quello che si poteva provare nell’ambito delle arti visive e sonore. Regista, sceneggiatore, produttore cinematografico, pittore, musicista, compositore, attore, montatore, scenografo e scrittore statunitense, tutta la sua creazione artistica è dovuta alla tanto amata meditazione trascendentale.

David Lynch

 

Autore tra i più invidiati degli ultimi 50 anni, non ha mai avuto grandissimo successo al box-office. Oltre all’immenso successo della serie televisiva Twin Peaks, i suoi film sono stati sempre etichettati come troppo complessi per poter essere “esposti” al pubblico.

Le sue pellicole non sono solamente una sequenza di immagini: tramite l’immaginazione visiva e ad una colonna sonora assolutamente perfetta, vengono interpretate dallo spettatore in base alle sensazioni che le opere stesse gli trasmettono.

Nelle sue opere (perché di arte si parla), Lynch non da mai una spiegazione. Secondo lui, ognuno di noi a una propria anima ed un proprio modo di interpretare. Ognuno ha il diritto di poter vedere un film, ascoltare una canzone o ammirare un dipinto, ed assimilare le sensazioni che prova nella visione perché niente è oggettivo, ogni cosa è quello che vogliamo che sia.

La sua complessa carriera di sperimentazione delle arti si deve grazie alla tanto amata meditazione trascendentale. La meditazione permette alla mente di raggiungere uno stato naturale di “consapevolezza senza oggetto” o “senza pensieri” chiamato “trascendenza”, il quale rilasserebbe profondamente il corpo e rinfrescherebbe la mente stessa, apportando vari benefici a chi la pratica.

Grazie ad essa l’artista immagina sequenza per sequenza le sue opere per poi renderle fruibili agli spettatori.

Sperimenta e non è mai banale. Vive di attimi. Non organizza mai ciò che deve fare, ma trasforma in arte le sensazioni che prova minuto per minuto. Un esempio su tutti è il suo ultimo film intitolato “Inland Empire – l’impero della mente”. Gira in parte a Los Angeles e in parte in Polonia, con gran parte degli attori semi sconosciuti e senza un copione. Basava la scena successiva in base a come veniva girata la precedente e gli interpreti erano invitati ad improvvisare per poter trasmettere maggior potenza alle immagini secondo i vari stati d’animo che provavano in quel preciso momento.

Insomma un genio a tutto tondo che distrugge tutte le regole canoniche esistenti. Fuori da tutti i canoni, forse è la personalità più rappresentativa degli ultimi anni, senza il quale, grandi registi odierni non sarebbero nemmeno considerati, uno su tutti il suo pupillo Eli Roth.

La maggior parte di voi lo odierà, ma vi do un consiglio: immergetevi a pieno nella visione di un suo qualsiasi film e cercati di meditare su ciò che vi vuole mostrare….ne rimarrete sbalorditi.

David Lynch, in una parola ONIRICO!

 

FABIO BUCCOLINI

Gregg Araki, un genio ai limiti della follia

Araki nella sua lunga carriera ha sperimentato quasi tutti i generi cinematografici conosciuti. La parola chiave della sua filmografia è appunto SPERIMENTARE. Questo termine spiega a pieno il genio creativo dell’artista che, a parte una piccola folla di seguaci, è quasi sconosciuto al grande pubblico.

Gregg Araki

 

Perchè succede questo? La risposta è molto semplice, perchè come tutti i geni resta incompreso. I suoi film sono un viaggio allucinogeno all’interno della violenza più pura e gratuita, il tutto condito con tantissimo e malsano erotismo ma, nonostante i temi trattati, i suoi film risultano sempre lucidi, chiari e in ogni scena (anche la più cruda di tutte) è tutto giustificato e fatto per un “fine migliore”.

Inizia a scrivere soggetti e sceneggiature ad appena 28 anni e approda ad un tipo di produzione indipendente a basso costo.

Dopo Three Bewildered People in the Night del 1987 e The Long Weekend (O’Despair) del 1989, arriva alla prima piccola produzione cinematografica con The Living End del 1992. Un geniale road movie, con protagonisti due giovani adolescenti gay, uno sieropositivo e in fuga da se stesso, l’altro, ai margini, nichilista e totalmente privo di moralità.

La sua fama nella Los Angeles gay/lesbica comincia a crescere con la produzione seguente, Totally Fucked Up, film che incentra un taglio documentaristico sulle vicende di sei personaggi omosessuali nella loro vita quitidiana.

Grazie ai successi ottenuti dai primi film, il budget messo a sua disposizione aumenta sempre più, e gli permetti di realizzare quello che è considerato tutt’oggi uno dei film più rappresentativi per una generazione, Doom Generation, del 1995.

La pellicola mostra a caratteri cubitali l’incubo visionario di 3 adolescenti attraverso un altro road movie, intriso di sangue morte e terrore. Shockante è l’accostamento fra la furia omicida dei ragazzi e i torbidi intrecci sessuali, accompagnati dalla costante vena di nichilismo dei personaggi, spesso presente nella filmografia di Araki.

Ancora più visionario anche se meno macabro e brutale è il successivo Ecstasy Generation del 1997, accompagnato da una splendida colonna sonora. Opera innovativa condita, come sempre, di sesso controverso, furia violenta e allucinazioni extra sensoriali.

Nel 1999 è la volta di Splendor e questa volta Araki realizza una pellicola totalmente priva di violenza brutale, nichilismo e odio, dimostrando di essere poliedrico e attento ad una ricerca del bello.

Si consolida  livello mondiale nel 2004 con Mysterious Skin,difficile resoconto di una storia di vita vissuta e in un certo senso stroncata dalla piaga della pedofilia, subita dai due giovani protagonisti durante l’infanzia. E’ il  film più serio realistico dell’autore nippo-americano.

Nel 2007 dirige Smiley Faces, che si rivela essere un film completamente diverso dai precedenti, privo di ogni qualsivoglia segno di violenza, furia omicida o torbidi accostamenti sessuali. Incentrandosi totalmente su un prodotto di commedia, mantenendo sempre uno stile univoco e originale.

Nel 2010 torna alla sua produzione originaria e dirige Kaboom: un film da vedere ed impossibile da raccontare. Sesso spinto, battute al vetriolo, atmosfere cyberpunk, visioni lisergiche, omaggi ai supereroi dei fumetti, citazioni lynchane, satira dei teen-movies e l’immancabile erotismo che contraddistingue tutta la sua filmografia, sono alcuni degli ingredienti del film di Araki, che torna alle origini anni luce dal sofferto e bellissimo Mysterious Skin.

Oggi ha concluso la lavorazione del suo nuovo film intitolato White bird in a blizzard.

La pellicola è una storia di formazione, con protagonista una diciassettenne di provincia che alla prematura scomparsa della madre, si ritrova da sola con un padre quasi assente.

Opera, come spiegato dal suo autore, ispirata a David Lynch. Qualche anno fa Araki dichiarava di essere un grande ammiratore d Lynch e di volersi ispirare ad opere altrettanto originali e libere come le sue. Questa sua nuova fatica è l’omaggio del regista al grande maestro dell’onirico.

Attualmente il film è in fase di post-produzione, e si vocifera di una sua anteprima al prossimo Festival di Cannes.

Tutto questo signori è Gregg Araki: un autore che negli anni ha consolidato uno stile personalissimo, un linguaggio riconoscibile, però mutante ad ogni film.

Forse il regista che meglio sa dare vita a un immaginario adolescenziale sempre sull’orlo dell’abisso, in tutte le sue sfumature, tingendo di satira la rappresentazione di ragazzi smarriti ma non domati, veri e propri surfer del caos, dividendosi tra la profonda malinconia e la comicità surreale quasi slapstick.

 

FABIO BUCCOLINI

I film dimenticati. “A l’interieur”, un vero e proprio capolavoro

Molti film, a causa di una mancata distribuzione italiana, sono destinati a rimanere nell’oblio.

A l'interieur

Di circa 25.000 film prodotti ogni anno in tutto il mondo, nemmeno la metà arriva in Italia.

Ma che fine fanno questi titoli?

La risposta è semplice: vengono distribuiti in tutto il continente, mentre in Italia la cosa è ben diversa.

Le case di distribuzione fanno una cernita di tutti i titoli, e quelli che a loro parere, non sono adatti a trovare un riscontro nel pubblico, vengono “cestinati” e nessuno ne sentirà mai più parlare.

Si parla soprattutto di opere di autori indipendenti, oppure di film di “genere” troppo estremi o trasparenti per poter – sempre secondo la distribuzione – trovare l’approvazione dello spettatore.

Le opere dimenticate riescono a trovare un pubblico di nicchia quasi esclusivamente in rete, grazie a: dvd (provenienti da altre nazioni) acquistati in siti di compra/vendita on-line, oppure in un mercato “underground” che di legalità a ben poco.

Uno di questi è “A l’interieur” o come viene distribuito in America “Inside”.

Film francese datato 2007 e presentato, in anteprima, alla settimana internazionale della critica al festival di Cannes.

Provocò una reazione estrema nella giuria, che ha lasciato la sala a metà proiezione.

La critica cinematografica si è divisa tra buone recensioni e critiche negative, rivolte soprattutto alle scioccanti sequenze di violenza.

La trama è estremamente esile: il soggetto gira intorno ad una ragazza incinta che a seguito di un incidente stradale perde il marito. Dopo 4 mesi dal fattaccio (il giorno prima del parto), rimasta sola in casa, viene perseguitata da una donna misteriosa che conosce molti particolari della sua vita.

Da una trama del genere nessuno si aspetterebbe un capolavoro, o per lo meno un bel film, mentre siamo di fronte ad uno dei film francesi più originali e ben fatti degli ultimi 10 anni.

La fotografia è a dir poco sublime e la colonna sonora rispecchia perfettamente gli stati d’animo dell’intero film.

Quello che colpisce di più sono le inquadrature, quasi sempre in primo piano, che non danno tregua nemmeno nelle scene più cruente.

La violenza non è mai gratuita, ed ogni scena truculenta, viene poi giustificata nel finale, dove grandi rivelazioni non tarderanno ad arrivare.

Il film è estremamente lucido e tutto quello che succede ha una logica a dir poco maniacale.

Principale fonte di ispirazione è l’ halloween di John Carpenter (l’assassina presenta infatti molti punti di contatto con Michael Myers), da cui il film si discosta per la marcata dose di violenza sempre esplicita e mai lasciata fuori campo.

Un crescendo che culmina in un finale perfetto e di difficile sopportazione (tra i più atroci degli ultimi anni), dove ad essere minacciato è proprio un simbolo sacro; la maternità.

Sotto questo punto di vista il titolo della pellicola diventa doppiamente allusivo.

Si intuisce che: intrappolata all’interno delle mura domestiche si trova la giovane protagonista, ma la vera vittima è un’altra.

Non un classico B-movie torture-porn ma un vero capolavoro del suo genere destinato a far riflettere lo spettatore.

Tra tutti i film girati in quel periodo in Francia ( Martyrs, Alta tensione, Frontiers), sicuramente “A l’interieur” è il più efferato; nella lucidità della follia; nelle immagini lanciate in faccia allo spettatore; nella messa in scena volta a ferire chiunque guardi.

Di sicuro impatto visivo, chi lo guarda difficilmente lo dimenticherà con tanta leggerezza.

Se siete suscettibili, avete lo stomaco debole e non sopportate la vista del sangue non iniziate la visione o vi troverete totalmente scandalizzati.

 

FABIO BUCCOLINI

“Last vegas” una commedia d’altri tempi che diverte

Nonostante l’età attempata dei protagonisti, il film diverte e si prende in giro scherzando sulla terza età.

Last vegas

 

Billy (Michael Douglas), Paddy (Robert De Niro), Archie (Morgan Freeman) e Sam (Kevin Kline), sono quattro pensionati amici da sempre, che in occasione dell’addio al celibato di Billy – la futura moglie ha ovviamente trent’anni di meno – decidono di andare a festeggiare a Las Vegas, per rivivere così i giorni di gloria. Ma la città del peccato è cambiata dai loro anni d’oro, e i quattro “Peter Pan” dovranno fare ricorso a tutta la loro esperienza – aiutati da parecchie vodka Red Bull – per stare al passo.

Dopo “Una notte da leoni” ad Hollywood sta andando molto di moda questo tipo di commedia che possiamo chiamare dei “festeggiamenti”.

Dopo i vari “American pie”, “Una notte da leoni” e le varie commediacce di sottogenere, come non inserire in questo contesto anche i nostri cari e vecchi “nonni”? Ovviamente impossibile.

Il film non è assolutamente male. Grazie all’interpretazione di quattro mostri sacri del cinema la pellicola scorre liscia come l’olio e non annoia.

A volte risulta essere troppo ripetitiva e  hai limiti del reale ma, nonostante tutto, durante le sue due ore di durata fa divertire il pubblico che ne esce soddisfatto.

Ovviamente il punto forte è l’interpretazione di quattro grandi della cinematografia. Non è la classica commedia in cui i protagonisti vogliono fare per forza i ragazzini, ma sono consapevoli della loro età e dei loro limiti e non eccedono mai nel ridicolo.

Il tutto orchestrato da una regia salda che riesce a non andare nel ridico ed a coprire le varie falle lasciate da una sceneggiatura non del tutto riuscita.

Un ottimo prodotto di intrattenimento che sicuramente non deluderà gli spettatori.

Un’unica cosa: alla fine della pellicola si pone spontanea una domanda: ma dopo tutte le varie commediacce che Hollywood ci propinqua ultimamente, avevamo bisogno di questa notte da leoni versione senile? La risposta la lascio a voi!!!!!

 

FABIO BUCCOLINI

“Frozen il regno di ghiaccio”, la vera sorpresa e la pellicola più riuscita delle feste

Concludiamo il nostro excursus delle pellicole di Natale con l’unica vera e propria sorpresa delle festività. Il film targato Walt Disney, è sorprendentemente originale, magico e divertente, ma soprattutto da un tocco nuovo al concetto di “vero amore”.

Frozen

 

Non ci possono essere vacanze natalizie senza un film Disney, proprio non esistono: leggende metropolitane vecchie di anni e anni narrano di principesse, avventure, magia e misteri che ogni anno si affacciano allo schermo cinematografico affascinando spettatori di tutte le età. Il Natale, probabilmente, si rifiuterebbe anche di arrivare senza la giusta favola ad annunciarlo.

Disney soddisfa i nostri desideri con una storia ricca di amore, fiocchi di neve, ghiaccio, castelli, principesse e… renne! Perché la fantasia dei bambini, a cui maggiormente il film è indirizzato (ma ovviamente non solo a loro), include davvero qualsiasi cosa nella costruzione di un mondo da favola e la pellicola ha cercato di inglobare il maggior numero di elementi favolistici possibili, creando un film alla portata dei sogni di tutti.

Liberamente ispirato alla fiaba di Hans Christian Andersen “La regina delle nevi”, ne rielabora completamente i contenuti mantenendo intatto solo quel senso di ancestrale magia che tanto affascina da sempre della storia originale.

Da piccole Anna ed Elsa erano davvero inseparabili, ma un giorno, all’improvviso, Anna si ritrova a essere completamente tagliata fuori dalla vita di sua sorella. Elsa si è chiusa in un mondo tutto suo e, dopo la morte dei genitori, l’intero regno di Arendelle è stato chiuso fuori dalle porte del castello. Anna è cresciuta da sola, senza imparare nulla del mondo esterno: è allegra, piena di fiducia negli altri, passionale, spensierata e impaziente di poter finalmente conoscere gente e incontrare l’amore della sua vita. Il giorno dell’incoronazione di Elsa qualcosa va storto: i suoi poteri glaciali vengono resi noti a tutti e la nuova regina fugge nel bosco, nascondendosi al popolo (e alla sorella) e involontariamente scatenando sul regno un inverno perenne. Anna, insieme al coraggioso Kristoff e alla sua fedele renna Sven, parte alla ricerca di Elsa, decisa ad affrontare tutti i pericoli della magia di sua sorella e che le innevate montagne dell’Everest le porranno davanti pur di salvare Elsa e tutto il regno.

La sceneggiatura è deliziosa, sotto ogni aspetto. È spassosa e diffonde perle di croccante comicità, soprattutto affidate all’esilarante pupazzo di neve Olaf. È ingegnosa e ricca di dettagli intriganti: il pupazzo di neve che brama l’estate è una chicca di tenerezza e ingenuità sublimi. È soprattutto originale: chi si aspetta che il tanto decantato bacio del “vero amore” giunga da un qualche principe avvenente o da un eroico ragazzone sarà stupendamente sorpreso.

“Frozen – Il Regno di Ghiaccio” è l’astuto risultato di uno studio svolto a voler unire le atmosfere, musicali e molto teatrali, dell’animazione classica con i più moderni mezzi espressivi, non solo tecnologici ma anche di linguaggio.

Un risultato squisito, capace di far provare allo spettatore più giovane una vasta gamma di emozioni, tenendolo incollato allo schermo come un magnete. Ma questo succede tranquillamente anche a quelli che, almeno all’anagrafe, non sono più bambini.

Una favola vecchia di anni che si veste della spensieratezza di oggi, divenendo un classico Disney frizzante e ricco di scintillanti sfaccettature, proprio come un cristallo di neve.

 

FABIO BUCCOLINI

“Indovina chi viene a Natale?” il cinepanettone più riuscito…ma solo per la critica

L’excursus sulle pellicole di natale continua con “Indovina chi viene a Natale?”di Fausto Brizzi. Sicuramente è la migliore tra i cinepanettoni, ma, andando avanti nella visione, anche essa si rivela troppo…”tradizionale”.

Indovina chi viene a Natale

 

Un “Christmas Movie” per Brizzi. Una commedia per il tempo delle feste con ricco cast come del resto si usa al motto “più siamo – famosi – meglio è”.

Un Natale complicato e articolato quello progettato dal regista.

Diego Abatantuono e Angela Finocchiaro gestiscono un’industria dolciaria (ovviamente panettoni, visto il periodo…) e si prodigano nell’inserimento dei disabili in azienda, salvo poi mal digerire il fidanzato senza braccia (Raoul Bova) della figlia (Cristiana Capotondi). Claudia Gerini, sorella del ricco industriale, ha un nuovo fidanzato, un gentile maestro elementare (Claudio Bisio) e forse è quello buono, viste le sue precedenti esperienze fallimentari, ma i figli di lei non gradiscono la “new entry”. Carlo Buccirosso, fratello “post-datato” (nel senso che è nato da un’altra relazione), il più legato alle tradizioni natalizie, da anni cerca di farsi accettare in famiglia nel modo giusto ed ha pronta una fiction sulla “dinastia”. E la matriarca non riesce ad elaborare il lutto per la scomparsa dell’amato marito, cantante di successo (apparizione in video di Gigi Proietti).

Una ricerca di equilibrio difficile da ritrovare, con molti pregiudizi da abbattere per i personaggi che compongono il quadretto festivo organizzato da Brizzi.

La commedia c’è, nulla si può togliere alla professionalità degli interpreti, tuttavia più volte emerge il sentimento di voler “pacificare” tutti gli animi e cercare le strade più consolanti, togliendo linfa vitale al contesto generale che si appiattisce e si “tranquillizza” in più punti, senza raggiungere più spesso zampate graffianti che avrebbero reso il sapore più “deciso”.

Certo il risultato è migliore rispetto ai deboli “Colpi di fortuna” di Neri Parenti o al recidivo Pieraccioni che continua sempre a ripetere la stessa minestra ogni due anni, per parlare della pattuglia italiana delle festività.

Va bene la tradizione, va bene il “menù” delle feste che molti non cambieranno mai, anche al cinema, ma a volte sullo schermo si vorrebbe qualcosa di un pochino più stimolante e meno “tradizionale”.

 

FABIO BUCCOLINI

“Colpi di fortuna”, il cinepanettone che non convince e annoia

Continuiamo il nostro excursus con la pellicola di Neri Parenti che, nonostante il record d’incassi, è la meno riuscita delle pellicole uscite nel periodo natalizio.

Colpi di fortuna

 

Abbandonato il filone natalizio, dopo il fallimentare “Vacanze di Natale a Cortina”, Aurelio de Laurentiis ha trovato lo scorso anno un inaspettato successo con l’interlocutorio “Colpi di fulmine”, in cui affidava a Neri Parenti l’onere di rinverdire il canone del film a episodi per condire, il cinema festivo, di un inusuale tocco romantico.

Formula che vince non si cambia: il nuovo “Colpi di fortuna” si inserisce in un panorama natalizio a base di Brizzi e Pieraccioni che punta a una normalizzazione della comicità “pecoreccia” in nome di una risata più indulgente e consolatoria.

Nel primo episodio Piero (Paolo Kessisoglu) ama Barbara e si confida con Mario (Luca Bizzarri), che con la ragazza ha una storia segreta. Piero vince al lotto ma perde il biglietto in una nottata di pazzie di cui non ricorda nulla. L’idea è un banale trucco narrativo che scopiazza a pieno la fortunata serie “Una notte da leoni”.

La seconda storia narra le avventure di uno scaramantico imprenditore tessile (Christian De Sica) che per chiudere un contratto con un allevatore mongolo di capre è costretto a sopportare la micidiale sfiga portata da un traduttore con difetti di pronuncia. Siamo dalle parti del Banfi di Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio (ma con minore ruspante vitalità) e l’episodio si fa ricordare – il turpiloquio è in fondo un approdo sicuro – per le storpiature ginecologiche della parola “forca”.

Infine Lillo & Greg interpretano un ex ballerino, ora sposato e con prole, e il suo misterioso fratello pazzo, ingombro da accudire per ottenere l’eredità di un padre mai conosciuto. Il tono da commedia surreale, con abuso di ripetizioni e nonsense, regge per una manciata di minuti prima di implodere nella trita banalità dello sviluppo e nell’ennesima, abusata, ode alla famiglia disfunzionale.

Sembra di stare in “Una notte da leoni”, condita con molta iella e per dessert un gruppo familiare pazzo che più pazzo non si può, dove, la normalità è proprio il fratello svitato.

Ogni frammento cerca di rianimare chiavi di comicità estinte con risultati sconfortanti: tutti gli episodi sembrano interminabili e le poche risate si manifestano più per impazienza nervosa che per sussulto liberatorio.

L’unico a salvarsi veramente è De Sica che, recitando sempre la solita parte, cerca di non far sprofondare l’intero film nella noia totale.

Luca e Paolo sono totalmente inadatti al ruolo e sembrano macchiette di loro stessi.

Per finire Lillo e Greg partono bene ma poco dopo, causa anche una sceneggiatura troppo scadente, iniziano ad annoiare per la troppa surrealità della storia.

In pratica, pur essendo buoni attori, in questa pellicola non riescono a far emergere la loro bravura sfornando personaggi che funzionano sicuramente in televisione ma non al cinema.

Non c’è molto da aggiungere, il film fa acqua da tutte le parti e soprattutto non assolve completamente nemmeno il suo compito principale, quello di far ridere gli spettatori.

 

FABIO BUCCOLINI

“Un fantastico via vai”, il migliore tra i cinepanettoni.

Un piccolo excursus sulle pellicole delle feste, ad un mese di distanza dalla loro uscita, è d’obbligo. Iniziamo con Un fantastico via vai.

Un fantastico via vai

 

Scritto, diretto ed interpretato da Leonardo Pieraccioni, “Un fantastico via vai” è l’11 film del regista toscano, che come al solito torna nel periodo natalizio. A distanza di due anni dall’ultimo film, “Finalmente la Felicità”, Pieraccioni ci riprova. Ormai lontani dai primi grandi successi, quali “I Laureati”, “Il Ciclone” e “Fuochi d’Artificio”, Leonardo nazionale fa divertire ma non riesce nell’intento di confezionare un prodotto originale.

Trenta candeline per il cinepanettone, genere inaugurato nel 1983 da Vacanze di Natale di Carlo Vanzina, film che aprì un business di successo costellato da nomi ben conosciuti.

E così anche quest’anno, insieme a “Colpi di fortuna” di Neri Parenti e “Indovina chi viene a Natale?” di Fausto Brizzi, non poteva mancare Leonardo Pieraccioni.

Come di consueto Pieraccioni è il regista ma anche la voce narrante e l’attore protagonista.

In questo caso, si cala nei panni di Arnaldo Nardi, quarantacinquenne impiegato di banca, che ormai si trastulla da anni nella propria quotidianità, quella di marito fedele e abitudinario, con un’indole ancora infantile un po’ assopita dal tempo. La bella moglie Anita, ogni tanto tenta di spronarlo ma a lui ormai sembra piacere la solita minestra finché, a causa di un fraintendimento, è proprio lei, sconcertata, a cacciarlo di casa per un sospetto di tradimento coniugale. Attratto da un annuncio in cui quattro studenti cercavano un nuovo inquilino, si presenta alla loro porta e inizia una convivenza con loro. Proprio grazie alla condivisione dello stile di vita e di emozioni con il gruppo di giovanissimi, Arnaldo scopre come valorizzare nuovamente il suo lato fanciullesco da una parte e dall’altra ha modo di maturare ancora aiutando i suoi coinquilini a superare le rispettive problematiche.

Il contorno farsesco è nelle mani di cinque comici: Maurizio Battista, Marco Marzocca, Giorgio Panariello, Massimo Ceccherini ed Enzo Iacchetti. I primi due sono risultano essere più credibili e divertenti, ma, la comicità innata di Panariello e Ceccherini, innalza il divertimento al di sopra delle aspettative.

Del cast da segnalare ci sono i quattro bravi giovani: Chiara Mastalli, Marianna Di Martino, Giuseppe Maggio, David Sef e Alice Bellagamba. Grazie alla loro ottima performance aiutano il regista a confezionare un prodotto godibile e non del tutto scontato.

Un Pieraccioni a tratti romantico e nostalgico che, non a caso, fa un richiamo esplicito al suo primo film “I laureati” e che mantiene un contorno favoleggiante che rende apprezzabile tutte le parti di una sceneggiatura, scritta a due mani con Paolo Genovese.

Un film decisamente per tutta la famiglia, per tutte le età, che diverte senza appellarsi al grossolano; non pretende di raccontare una storia di rassegnazione, piuttosto una storia di fiducia e positività. Questo è ciò che principalmente riesce ad animare lo spettatore e che probabilmente ha ispirato Pieraccioni.

 

FABIO BUCCOLINI

The wolf of wall street è un capolavoro?

In un primo momento il film ha avuto una lavorazione travagliata: sottoposto alla regia di Martin Scorsese si sarebbe dovuto realizzare prima di Shutter Island ma, la produzione dell’adattamento cinematografico, sembrò essersi paralizzata. Ridley Scott è stato vociferato come possibile sostituto alla regia, sempre con Leonardo DiCaprio come protagonista, ma, alla fine il progetto venne rimandato e si attese Martin Scorsese per girarlo.

wolf-of-wall-street

 

Jordan Belfort (Leonardo Di Caprio) di giorno riesce a guadagnare migliaia di dollari che con la stessa velocità sperpera in droga, sesso e viaggi intorno al mondo. Passato dal vendere gelati ad essere il capo di un ufficio di stockbroker, Jordan è avido, ama il potere e ogni forma di eccesso. Mentre conduce la sua attività con metodi alquanti discutibili, vive una burrascosa relazione con la moglie (Margot Robbie) da cui ha due figli. Però negli anni Novanta il suo appetito insaziabile, la dissolutezza e la partnership con il designer di scarpe Steve Madden (Jake Hoffman) gettano il suo nome nel fango.

Molti i motivi per cui questa pellicola potrebbe essere un capolavoro, primo su tutti la regia di Scorsese che dopo qualche tentennamento dovuto alle sue ultime pellicole, che non hanno ricevuto il successo aspettato, sembra tornato ai suoi massimi.

La seconda cosa da non sottovalutare è l’interpretazione di Di Caprio che dal suo sodalizio con il regista italo/americano ha tirato fuori ruoli che rimarranno nella storia del cinema.

Ma soprattutto perché la coppia è una garanzia di successo: rielaborano la storia di Belfort come se fosse un Robin Hood del nuovo millennio: un tormentato che ruba ai ricchi e dà a se stesso e alla sua banda di brokers.

Neanche gli agenti dell’ FBI escono indenni da questa storia. Infatti più che un “facciamo rispettare la legge” sembra che gli agenti vogliano fermare Belfort solamente per invidia, perché lui ha tutto mentre gli altri non contano un ca..o…Una vera e propria vendetta personale.

Il film corre come un treno impazzito, non annoia gli spettatore e lo porta al limite di una storia (successa veramente) che sembra proprio inverosimile.

Insomma il film tira avanti come una rockstar…è tutto sesso droga e rock’n roll.

 

FABIO BUCCOLINI

Il “vecchio uomo” risorge dalle ceneri

Tra non poche perplessità il remake di “Oldboy”, capolavoro orientale firmato Park Chan-Wook, è arrivato in Italia. Spike Lee tenta di far rivivere le estreme vicende dell’originale coreano dall’altra parte del globo e a distanza di dieci anni.

oldboy

 

Aspettato al varco con moltissima tensione ed ansia, segna il ritorno alla regia di Spike Lee dopo un periodo di stop.

Ci sono tre indizi che fanno pensare bene di questo remake:

Primo indizio: Se c’è un film che ha entusiasmato il pubblico occidentale nel passato recente è stato di certo il capolavoro diretto da Park Chan-wook nel 2003 con una raffinatezza stilistica che ha sdoganato l’iperrealismo in tutta la sua potenza espressiva. Uno dei pochi, autentici cult-movie dello scorso decennio.

Secondo indizio: Josh Brolin. Dopo anni di gavetta il quaranticinquenne attore è diventato un dei volti più apprezzati e affidabili del cinema americano contemporaneo.

Terzo indizio: Spike Lee. La forza dell’autore di “Fa’ la cosa giusta” e “Malcolm X” è stata sempre quella di non tirarsi indietro di fronte a nuove sfide creative, di qualsiasi tipo. Un regista coraggioso nel raccontare storie scomode, che spesso altri cineasti non volevano (o sapevano) mettere in scena, e continuare a fare il suo cinema, capace di corrodere la superficie benpensante e ipocrita della società americana contemporanea.

Ma questi tre indizi non bastano a fare di questo remake un capolavoro come il suo predecessore.

Il film va bene per un pubblico “americanizzato” che gode nel vedere la violenza allo stato puro. Ttta la poetica che c’era nella vecchia pellicola qui viene persa. Persino le scene più crude nel film del 2003 erano giustificate e niente veniva lasciato per scontato.

In questa nuova versione sembra che la parola chiave sia apparire. Sembra che gli autori si siano concentrati sull’impressionare e non hanno pensato a costruire un anima ferrea alla pellicola.

Comunque trattandosi sempre di Spike Lee, in parte riesce a colmare le lacune ed a marginare i danni. Sicuramente dopo il clamoroso flop di Miracolo a Sant’Anna con questo a dato prova di essere un maestro di regia ed ha risollevato una carriera che sembrava caduta nel baratro.

Tutto sommato un grande film che vale la pena di essere visto, ma ad una condizione: bisogna prenderlo per quello che è…un puro prodotto americano.

 

FABIO BUCCOLINI