Rob Zombie racconta Salem con la sua controversa opera sulle streghe dedicata a satana e ai sui accoliti

Che piaccia oppure no, Robert Bartleh Cummings (questo è il suo vero nome) è uno degli artisti di riferimento riguardo la cinematografia horror degli ultimi dieci anni. Cantante, compositore ed infine regista, ha conquistato il ben volere del pubblico circa venti anni fa, quando formò la band alternative metal “White zombie”, che poi sciolse per portare avanti la sua carriera solista.

Rob Zombie

La cosa più importante che possiamo dire è che Rob Zombie delle mode se ne frega.

Se ne frega da dieci anni, da quel 2003 in cui sganciò la bomba “La casa dei 1000 corpi”, oggetto radicale e fuori dal suo tempo che fece impallidire di colpo tutti gli increduli spettatori contemporanei (la pellicola era pronta dal 2001 ma per successivi due anni nessuno aveva il coraggio di distribuirla).

Se ne frega anche delle aspettative dei fan, visto che dopo quell’esordio fu la volta del diversissimo ma ancora più bello La casa del diavolo, western crepuscolare e struggente mascherato da horror.

Ottenne un successo di critica anche maggiore, contribuendo a far assurgere il buon Zombie al rango di nuovo vate del genere.

Poi fu la volta  dei due remake della saga di Halloween, tuttavia, per quanto spingessero ancora di più sul pedale della personale rivisitazione di stilemi classici, delusero però un po’ tutti, sopratutto per quanto riguarda il cruento e inconcludente secondo episodio (non voluto dal regista ma costretto per motivi legati alla casa produttrice) che comunque non è privo di un fascino sopra la norma.

Ora, cambia ancora una volta radicalmente registro: e firma un horror satanico e psichedelico che ha il ritmo lento, ponderoso e solenne, e le sonorità acide, stridule e disturbanti del black metal.

Dopo una parentesi nel cinema d’animazione (The hunting world of el Superbesto) ecco arrivare in questi giorni l’atteso Le streghe di Salem, film prodotto in piena autonomia, con tutte le conseguenze positive (totale libertà di produzione e scrittura) e negative (budget di basso livello, un milione e mezzo di dollari) del caso.

Ancora una volta, e ben più del solito, gran parte del peso della pellicola ricade sulle spalle, e sul fondoschiena, più volte inquadrato in versione nature, della musa-moglie Sheri Moon.

Partendo da una storia, che è una delle più radicate vicende di folklore americano, il film si propaga ipnotico, raccontando una “witch-story” contemporanea trovando proprio nella musica il punto di congiunzione perfetto e perverso tra un passato e un presente diversissimi eppure uguali.

Il percorso della Heidi di Sheri Moon (perfetta nella parte), è reso travagliato da possessioni e dipendenze che superano quelle diaboliche, le quali assumono una valenza metaforica.

Questo racconto, pessimista, Rob Zombie lo mette in scena con modalità che ne confermano un coraggio quasi dissennato, una voglia di osare che si traduce nello spingersi oltre la soglia dell’atteso anche a costo di suonare una nota stonata.

L’autore ha ammesso apertamente che questa pellicola è un omaggio hai grandi registi del passato.

Nelle lunghi piani sequenza ritroviamo il Kubrick di Shining. Per quanto riguarda i movimenti di macchina e la realizzazione della storia è un grande omaggio hai maestri Polansky e Argento. Il più grande omaggio viene fatto al maestro dell’onirico David Lynch nella rappresentazione delle allucinazione che perseguitano la protagonista.

Zombie non copia né scimmiotta, né omaggia con maggiore o minore differenza, semplicemente si cala nello spirito di un cinema anni settanta catturandone con personalità  l’essenza e la forza visionaria.

Procedendo con ritmo lento e ragionato, la pellicola osa sempre di più, libero da preconcetti e sovrastrutture, facendo sprofondare in un incubo malsano e angosciante lo spettatore.

Rob, che ha girato con due lire e in tutta fretta, non ha bisogno di abusare in effetti speciali per catturare e strizzare la mente di chi guarda, gli basta usare la forza del cinema e la sua capacità di stupire con poco.

E ancora una volta ci regala un film che se la ride dei deliri postmoderni e ipertecnologici che sbancano i botteghini di mezzo mondo, e li ridimensiona mettendoli all’angolo con un solo movimento di macchina o una sola, semplice e potente invenzione visiva.

Lungometraggio che sicuramente divide critica e pubblico. Sconsigliato a coloro che vogliono vedere il classico horror “giovanile” dove lo splatter comanda.

Horror vecchio stile e grande regista…..cosa c’è di meglio?????

FABIO BUCCOLINI

Pubblicato il 16 febbraio 2014, in Autori con tag , , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. 1 Commento.

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